Lo stereotipo “è la visione semplificata e largamente condivisa su un luogo, un oggetto, un avvenimento o un gruppo riconoscibile di persone accomunate da certe caratteristiche o qualità” (cit. Wikipedia).
Esso rappresenta un pericoloso meccanismo di attivazione di modalità semplicistiche per definire e raggruppare gli esseri umani ed i loro comportamenti. Attraverso schemi rigidi di valutazione che non consentono ipotesi di cambiamento le opinioni (che divengono nel tempo credenze quasi irremovibili) vengono socialmente condivise finendo per influenzare le relazioni fra i vari gruppi sociali nonché suggerendo comportamenti consequenziali tra chi li applica e chi li subisce.
Le informazioni che provengono costantemente da ambienti esterni al proprio vissuto, vengono indirizzate, selezionate, elaborate, finalizzate e trasmesse attraverso una costante pressione mediatica nelle sue varie forme. Il fine ultimo è quello di soddisfare interessi diversi e la conseguenza è tale che i fruitori inconsapevoli immagazzinano in modo attivo le informazioni stesse.
Queste operazioni, che altro non sono che rappresentazioni simboliche e deviazioni del mondo reale, forniscono semplicemente ulteriori categorie sociali alle quali vengono affidate caratteristiche “esemplari” e “riconoscibili”.
Si mantengono e sussistono nonostante che nella realtà economico-sociale siano stati disconfermati (dati, studi e ricerche, politiche adottate a livello internazionale ed europeo ecc.) continuando a stabilire i comportamenti ed influenzare le aspirazioni individuali.
Essi negano nella sostanza i ruoli paritari che dovrebbero distinguere/avere maschi e femmine nella società.
Si mantiene così una differenza incompatibile tra l’autorevolezza-competizione per l’uomo, famiglia-corpo-oggetto per la donna. Un sistematico monitoraggio “anti-culturale” che si ripercuote inevitabilmente nella vita quotidiana, nella sua qualità e nella convivenza civile.
Troppo spesso si verifica che lo stereotipo non solo condiziona i comportamenti degli adulti ma agisce anche sulla formazione giovanile con un meccanismo di auto-oggettivazione e di riconoscimento identitario.
La denuncia di questi stereotipi dunque è stata una delle campagne che più hanno caratterizzato e caratterizzano la richiesta di un’inversione di rotta per la quale necessita, nelle sedi opportune, una presenza di genere più incisiva e consapevole per attuare il principio del “rispetto di genere”.
La formulazione che più volte è stata espressa e ottenuta per un riconoscimento di rappresentanza istituzionale (50/50, quote rosa ecc.), tendeva proprio a dare sbocco e una soluzione concreta a questo progetto.
Purtroppo, come spesso accade in cruente battaglie, molto è stato il fumo e scarso il risultato.
Dobbiamo ammettere che, pur proporzionalmente insufficiente, la presenza delle donne nella politica degli ultimi decenni è stata numericamente accettabile rispetto al passato.
Quanto deludente rispetto alle aspettative e alle deleghe date ad esse proprio dalle votanti.
E’ legittimo volere una donna nei centri decisionali della politica ma “votare una donna in quanto donna” non rappresenta una conquista, piuttosto la creazione di un “auto stereotipo” di gruppo che non è possibile proporre e alimentare.
Ovvero le donne hanno diritto e dovere come tutti di partecipare alle tornate elettorali e di essere elette indipendentemente dai nostri desideri personali ma, nello stesso tempo quelle che si candidano sostenute da altre cui rispondere in rappresentanza dei loro bisogni, sostenute dalle stesse per un programma condiviso e condivisibile, non può che accettare una candidatura strumentalmente finalizzata a questi obiettivi e onorarli.
Solo con queste caratteristiche si può configurare e giustificare una “candidatura di genere”, che non è da considerarsi una scorciatoia né un’etichetta.
Votare “quella” donna e non “una” donna, deve assumere un valore nuovo e diverso. L’ennesima delusione sarebbe imperdonabile.
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