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«Torno a casa… Li denuncerò domani». Il ricordo di Franca Rame e la lotta contro la violenza sulle donne

«Tengo con la mano destra la giacca chiusa sui seni scoperti. È quasi scuro. Dove sono? Al parco. Mi sento male… nel senso che mi sento svenire… non solo per il dolore fisico in tutto il corpo, ma per lo schifo… per l’umiliazione… per le mille sputate che ho ricevuto nel cervello… per lo sperma che mi sento uscire. Appoggio la testa a un albero… mi fanno male anche i capelli… me li tiravano per tenermi ferma la testa. Mi passo la mano sulla faccia… è sporca di sangue. Alzo il collo della giacca.

Cammino… cammino non so per quanto tempo. Senza accorgermi, mi trovo davanti alla Questura.
Appoggiata al muro del palazzo di fronte, la sto a guardare per un bel pezzo. Penso a quello che dovrei affrontare se entrassi ora… Sento le loro domande. Vedo le loro facce… i loro mezzi sorrisi… Penso e ci ripenso… Poi mi decido…

Torno a casa… torno a casa… Li denuncerò domani».

Franca Rame la parola contro la violenza

Franca Rame è stata un’attrice teatrale, drammaturga e politica italiana, nonché moglie del compianto premio Nobel per la letteratura Dario Fo. La sera del 9 marzo del 1973, a Milano, fu caricata su un furgone, torturata e violentata a turno da cinque uomini di un gruppo di neofascisti. Fu uno stupro “politico”, una punizione per le sue idee e per la sua lotta contro la violenza. Ma gli stupratori decisero di punirla in quanto donna. Al tragico evento Franca Rame decise di reagire a suo modo, scrisse un monologo Lo Stupro che recitò nei teatri di tutta Italia, senza mai rivelare l’identità della vittima, ovvero lei stessa.
Molti anni dopo la Rai con Andriano Celentano la invitò a Fantastico, dove raccontò la sua storia e dove rivelò che la storia non era frutto di una finzione.
(Qui potete vedere il video del monologo per intero)

Il 25 Novembre

Oggi 25 novembre è la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, e non è un caso che sia stata scelta questa data. Nel 1960 nella Repubblica Dominicana, ai tempi del dittatore Trujillo, questa data è il ricordo di un brutale assassino che coinvolse le tre sorelle Mirabal. Considerate rivoluzionarie furono torturate, massacrate, strangolate e per poi essere gettate in un burrone dove venne simulato un incidente.

Molte realtà di oggi ci riportano a quel lontano evento di quasi sessant’anni, come se nulla fosse cambiato. Attuali, purtroppo, rimangono i fatti qui sopra descritti.
Anni di storia, di lotte e di emancipazione femminile hanno portato alla luce una piaga che affliggeva e affligge tuttora le donne. Se prima regnava il silenzio, pian piano un filo di voce ha iniziato a sussurrare la parola “aiuto”, fino a diventare un voce potente che ora risuona a pieni polmoni e grida “basta”.

Ma cosa vuol dire femminicidio?

Il femminicidio è “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”. Se ne deduce che il suo significato è molto più ampio di quello che erroneamente si può pensare. Non ci si riferisce solo ai crimini commessi da parte di partner o ex ma stiamo parlando di tutti i casi in cui un essere umano di genere femminile ha subito una violenza di qualsiasi tipo. Giovani ragazze vessate da un genitore violento, prostitute uccise per la strada dai loro clienti, discriminazione omofobe, donne contagiate uccise dall’AIDS contratta da partner sieropositivi che tenevano nascosto il loro stato, o le molestie sul lavoro.

Il femminicidio riguarda ogni forma di violenza di genere che è in grado di annullare l’identità di una donna, di minare la sua libertà, non solo fisica ma anche psicologica. Tutto ciò che non solo priva la donna della sua vita ma anche del potere decisionale su di essa. La perdita quindi del suo essere e della sua esistenza.

Secondo la criminologa Diana E. H. Russell, che usò per la prima volta il termine insieme alla docente femminista di Studi Culturali Americani Jane Caputi nel 1990, il femminicidio è la morte di una donna colpevole, agli occhi dell’assassino, di essere donna. Colpevole di aver trasgredito il ruolo ideale di donna, obbediente, madre e moglie o colpevole di essere la “Eva” tentatrice. La violenza dell’uomo si scatena nel voler riportare la donna al suo stato di sottomissione e subordinazione. Una concezione frutto di una società patriarcale ancora ben radicata in molte realtà e che solo negli ultimi anni sta facendo posto a una maggiore presa coscienza da parte dell’uomo di una parità dei sessi.

In questo 25 novembre ricordiamo le parole di Franca Rame che ha deciso di combattere la violenza con la parola e che a scelto di non accettare l’obbligo al silenzio che la vergogna personale e il pregiudizio altrui impongono, dimostrando con la sua arte che era più forte dei suoi violentatori.

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