Nato a Genova, classe 1975, Claudio Bagnasco ha dedicato la sua vita alle parole, alla scrittura. Saggi di linguistica, racconti, brani di poetica, interviste e distici sono apparsi su vari blog e riviste. Nel 2010 esce il suo romanzo Silvia che seppellisce i morti (Il Maestrale, 2010), l’anno dopo pubblica una raccolta di racconti In un corpo solo. Ha curato il volume Dato il posto in cui ci troviamo. Racconti dal carcere di Marassi (Il Canneto, 2013). Sulla rete lo troviamo con il blog letterario Squadernauti che si appresta a diventare una rivista cartacea semestrale.
Il 2019 porta allo scrittore un nuovo traguardo di cui andare fiero, ovvero la pubblicazione del suo nuovo romanzo Gli inseguiti edito da CartaCanta. (ad link)
Gli inseguiti è un romanzo corale che sottolinea l’impossibilità delle relazioni così come della solitudine. I protagonisti, alle prese con un passato che non si lascia dimenticare, si affaccendano tra incontri, scontri, amori, ricordi, speranze e fallimenti nella continua ricerca di una risposta. Eugenio, editor ossessivo e inaderente alla realtà; le sorelle Loredana e Marzia, una affascinante e malinconica, l’altra ciarliera e incapace di sofisticazioni; Barbara, atleta dilettante e bugiarda compulsiva; Cesare, anziano di grande saggezza e avviato all’inazione; Franco, operaio, prepotente per necessità e vittima per vocazione. Infine Oreste, che dopo aver commesso un crimine in gioventù cerca riscatto nell’alcol e nel sacrificio di sé.
Abbiamo avuto il piacere di rivolgere qualche domanda all’autore Claudio Bagnasco, di seguito la nostra intervista.
Gli inseguiti è un romanzo scritto tra il 2012 e il 2013. Rispetto a oggi sono cambiate così tante cose – nella mia vita – che quasi non ho nemmeno più memoria di quel periodo. Però posso intuire (è una sorta di presentimento al contrario, rivolto cioè al passato) che mi interessasse esprimere quello che è riportato nell’aletta del libro: l’impossibilità tanto della solitudine quanto delle relazioni. Il paradosso degli umani è che si è soli in compagnia degli altri, e dagli altri si è abitati quando si è da soli.
Di solito i miei personaggi nascono dalla sedimentazione e somma di caratteristiche desunte da tipi umani immaginati, e presunte da persone di mia più o meno stretta conoscenza. Così è anche per quasi tutte le figure che popolano Gli inseguiti, con due eccezioni. Uno dei personaggi è un omaggio a uno degli esseri umani più straordinari che mi sia capitato di incontrare nella mia esistenza: ho solo modificato la sua età, il suo passato e le sue circostanze familiari. È un omaggio privatissimo, dunque scordatevi di saperne di più. Un altro personaggio, Franco, assume su di sé l’ambiguità che tante volte ho riscontrato nei maschi adulti, violenti e fragili, rozzi e poetici. Piccola digressione: il problema degli altri, l’annoso problema degli altri, è in realtà sempre e solo un problema nostro; dipende dalla nostra capacità di assolvere anziché condannare, di accettare misericordiosamente anziché rifiutare stizziti. Ecco: col personaggio di Franco ho voluto mettere il lettore di fronte a questo problema.
Quando scrivo cerco di tenere a freno ogni tentazione narcisistica, mi impegno a trattenermi dal godimento infantile di tuffarmi nell’autobiografismo. Però è pur vero che la mia vita ha un solo punto di vista, il mio; perciò sospetto che anche stavolta mi sia stato impossibile non versare un po’ di me in ciascuno degli attori de Gli inseguiti. Forse chissà, Eugenio, con la sua costante tensione tra sottomissione alla forma e desiderio di libertà, potrebbe essermi più prossimo degli altri.
Dalla morte, come tutti gli esseri umani e come tutti i personaggi del mio romanzo. E il bello (il folle, l’assurdo, l’idiota ma anche il commovente) è che tutti noi la percepiamo alle nostre spalle, questa cosa che ci insegue, mentre lei è lì che ci attende, alla fine del viaggio. A meno che la sensazione di essere inseguiti, appunto, non derivi dal fatto che il buio che ci inghiottirà è il medesimo da cui proveniamo.
I riferimenti letterari, dopo quasi trent’anni di letture adulte, sono naturalmente moltissimi; forse più quelli apparentemente dimenticati – ma che sono ben nascosti in qualche piega della memoria, e che magari riaffiorano inopinatamente sotto forma di vocabolo, costruzione sintattica o immagine – di quelli dei quali ho piena consapevolezza. La seconda parte della domanda, in cui mi si chiede a chi io mi senta “più legato e riconoscente”, mi permette tuttavia di essere addirittura preciso nel rispondere. Con pochi scrittori il legame è così intimo da farmi ritenere in debito con loro, un debito umano prima che letterario, e non importa se ho conosciuto solo uno di essi. Si tratta di Dante Alighieri, Miguel de Cervantes, Jorge Louis Borges, Eugenio Montale, Giorgio Caproni, Beppe Fenoglio, Paolo Volponi, Anna Maria Ortese, Paolo Bertolani, Cesare Viviani, Cormac McCarthy e forse – è un amore degli ultimi anni, che non so ancora se reggerà l’urto del tempo – Umberto Fiori.
Potrei aggiungere due filosofi del Novecento, anzi lo faccio: Emil Cioran e Vladimir Jankélévitch.
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