La prima parte della quinta e ultima (a quanto pare) stagione de La casa di carta, la serie spagnola creata da Álex Pina è arrivata su Netflix il 3 settembre. Come era stato annunciato, la guerra è scoppiata davvero.
(L’articolo non contiene spoiler sull’ultima stagione)
Già nelle due precedenti stagioni, soprattutto l’ultima, con la messa in atto della rapina alla Banca di Spagna le cose si erano fatte più serie per la banda del professore e di momenti distensivi ne erano rimasti pochi, affidati quasi sempre ai flashback su cui ormai, e ancora di più in questa quinta, incombe un alone di morte. Le apparizioni di Mosca e di Nairobi sono piene di dolente nostalgia, così come quelle di Berlino.
Proprio al personaggio interpretato da Pedro Alonso, in questa ultima stagione si affidano le parti più spassose, anche se un po’ troppo scollate dal resto della narrazione, che segnano l’introduzione del nuovo personaggio di Rafael, il figlio di Berlino, hacker geniale che avrà molto probabilmente un ruolo chiave nella seconda parte del finale. Il flashback su Berlino è un heist movie a sé, il “film del colpo grosso” a cui all’inizio tutta La casa di carta sembrava somigliare ma da cui poi ha finito per allontanarsi, marcando con quest’ultima parte un netto divario con le prime stagioni.
Non è più il tempo delle pianificazioni perfette, ma quello dei mitra e delle granate. Il professore ci aveva abituati a credere di avere sempre un piano alternativo, e anche un piano alternativo al piano alternativo, costruendo nel corso degli episodi una ragnatela di infinite possibilità, tutte previste in anni di meticolosa progettazione del colpo, che se ogni tanto hanno messo a dura prova la sospensione dell’incredulità in noi spettatori, ci hanno anche regalato un personaggio memorabile, geniale sì ma non inafferrabile per noi comuni quozienti intellettivi, perché anche timido, imbranato, umano.
Ma ora il professore è tenuto sotto scacco dall’ispettore Alicia Sierra, che era riuscita a scovarlo nell’ultima puntata della quarta stagione, e nella Banca di Spagna regna il caos. Il Colonnello Tamajo manda le forze armate speciali, l’obiettivo non è più liberare gli ostaggi ma uccidere i sequestratori. I giochi sono finiti, e non c’è più spazio neppure per l’amore. In questa quinta stagione esso è sempre lontano, un ricordo che rivive solo nei flashback o nei racconti dei protagonisti. Perduto ormai, a volte, come quello di Tokyo per il suo René.
A parte l’episodio su Berlino, che nella regia e nella fotografia si distingue molto dalla narrazione principale, la Casa di carta 5 è il racconto ipercinetico di un assedio che non lascia respiro, con montaggi alternati da cardiopalma; violento, pieno di parolacce, di battute a effetto e di espressioni ostentate in primissimo piano; uno stile se vogliamo anche un po’ tamarro, come gli agenti delle forze speciali. Ma forse è proprio questo il punto forte di questa serie spagnola amatissima in tutto il mondo, diventata un vero e proprio cult per l’immaginario che è riuscita a creare, con quelle tute rosse e le maschere di Dalì e Bella ciao.
L’uso di questa canzone simbolo della Resistenza non è qui un semplice vezzo, perché la questione sociale ne La Casa di carta è un tema ben presente, soprattutto nelle prime stagioni, in quest’ultima forse troppo relegato a un singolo episodio che però lascia il segno. Ovvero quando Bogotà riempie di botte Gandía (odioso, riuscitissimo personaggio chiave delle ultime stagioni) perché, così gli dice, “sei un fascista”, elencandogli tutti i motivi per i quali può definirlo tale. Un momento che regala una certa soddisfazione.
A proposito di musica, abbiamo sentito tutti nel primo episodio le note del Requiem di Mozart. Questa scelta non può non apparire come una dichiarazione di intenti. C’è da credere che la fine sia arrivata davvero. Resta la domanda, per rispondere alla quale bisognerà aspettare il prossimo 3 dicembre: per chi suona il Requiem?
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