Discriminazione e coscienza sociale, due termini che si negano a vicenda: non può esserci spazio per l’una dove è presente l’altra, e viceversa. Persino in società che si considerano “evolute” come la nostra, lo sviluppo di una radicata e robusta coscienza sociale è un obiettivo che appare ben lontano dall’essere raggiunto e la discriminazione è ancora una realtà ben presente in molte forme, dalle più manifeste alle più subdole.
Al Roma Fringe Festival di quest’anno sono stati molti gli spettacoli che hanno proposto delle riflessioni intorno a questo tema, ma abbiamo voluto qui soffermarci su due progetti in particolare, molto diversi fra loro sotto diversi aspetti ma accomunati dal contesto storico cui fanno riferimento, quello probabilmente più oscuro della storia contemporanea, segnato dalla persecuzione e dallo sterminio degli ebrei.
Era ebrea Hannah Arendt, filosofa e politologa tedesca, autrice nota al grande pubblico per il suo (a suo tempo) criticatissimo libro sul processo Eichmann La banalità del male, protagonista dello spettacolo La pescatrice di perle, finalista al Roma Fringe Festival 2021 e vincitore del Premio della Stampa. Uno spettacolo che nasce dallo studio approfondito della figura e del pensiero di Hannah Arendt da parte della drammaturga e regista Valeria Simone e da cui emerge un messaggio molto forte e di stringente attualità: “noi siamo ciò che diciamo”.
In questo nostro tempo di grandi annunci, frettolose sentenze, parole rigurgitate come bile e promesse che durano il tempo di un refresh di pagina, questa frase bisognerebbe ripetersela nella propria mente più volte al dì come si prende una medicina. Quello che diciamo e quello che facciamo, ci dice la Arendt, ci definisce. Uno spettacolo, La pescatrice di perle, che offre molti spunti di riflessione sulle responsabilità dell’individuo e sull’importanza di sviluppare un pensiero critico per non cadere nelle stesse trappole che hanno tragicamente segnato la nostra storia recente.
Abbiamo parlato di La pescatrice di perle con l’attrice Marianna De Pinto, qui corpo e voce di Hannah Arendt.
Raccontare storie è la passione di Saul, che nella piazza del suo paese intrattiene bambini e adulti con il suo teatrino di pupazzi. Con le storie può fare quello che vuole, inventare mondi, personaggi, intrecci, e dare loro la giusta conclusione, un lieto fine. Ci sono storie, però, che non si possono raccontare, segnate da un dolore che non si può immaginare. Questa è la storia di Saul, giovane studente ebreo, perseguitato con la sua famiglia dopo l’emanazione delle leggi razziali nel 1938. Una storia che Marco De Simone, autore e interprete di Noi, pupazzi, chiude con un monologo toccante, uscendo dalla narrazione per esprimere l’impossibilità di raccontare ciò che è stato, perché di fronte a certi eventi le parole non bastano più.
“La verità è che non esiste verità, e per questo non la si può raccontare come una storia”, alla fine di quello che per la maggior parte della sua durata aveva avuto i toni di uno spettacolo per bambini (pur nella serietà di quanto raccontato) Marco De Simone stupisce con un monologo denso e accorato, ricordandoci che quanto è successo può accadere di nuovo e che possiamo evitarlo solo studiando il passato e prendendo coscienza di ciò che siamo. Noi, pupazzi è uno spettacolo che, se la parola non suonasse così fastidiosamente paternalistica, potremmo ben definire ‘educativo’.
Ne abbiamo parlato con Marco De Simone in occasione della sua messa in scena a porte chiuse al Piccolo Eliseo.
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