Ha un titolo quanto mai evocativo la stupenda Mostra di Duccio Trombadori visitabile sino al 23 marzo nella prestigiosa sede della Fondazione Marco Besso di Roma: “Le scampagnate. Paesaggi italiani” (visitabile su prenotazione entro le 12 del giorno precedente la visita tel.: 0668192984, oppure via email: prenotazionifondazionemarcobesso.net), promossa dallo Studio Aperto Arti visive della Fondazione Besso, diretto da Lillo Bartoloni.
Duccio Trombadori ha sempre accompagnato nel corso del tempo la sua nota attività di giornalista ed esperto critico d’arte moderna italiana ad un’ esperienza personale della pittura che riecheggia la lezione del ‘900 italiano e in particolare della “Scuola Romana”.
“…Amavo percorrere le superfici tonali e la composizione di certi paesaggi elementari, casolari di campagna, alberature di mezzo bosco, valli baciate da luci tenere di tramonto o di primo mattino… In anni non sospetti, ho eletto gli autori di una mia ideale pinacoteca, ho amato imitare la loro pittura: Carrà, Derain, Manguin, Rosai, Soffici, Trombadori… Tra loro, mi pareva di trovare la giusta misura di poesia per fare luce sul dramma spirituale dell’anima europea nel ‘900…”.
“Ho voluto esprimere una sorta di scacciapensieri, un giardino italiano ideale che mette in scena luoghi prediletti, tutti rivestiti dal manto immaginativo della pittura”:
I venticinque dipinti esposti raffigurano situazioni ambientali di mare e di terra, riconoscibili o immaginate come “scorci mediterranei”, e diventano occasione, dice l’autore, di vivere una “parentesi estetica, la proposta di una ‘scampagnata dello spirito’ , un sogno ad occhi aperti da effettuare con la pittura lontano dai fragori e rumori del presente”.
Nel pregevole piccolo Catalogo edito da Maretti un dialogo tra l’Autore e Antonella Amendola svela la genesi sottesa di questi stupendi dipinti, che, anche al visitatore più sprovveduto, non possono che suscitare l’emozione di tempi e di luoghi sospesi, in uno iato epifanico che rimanda a memorie e giorni felici, purtroppo perduti per sempre, e che solo l’Arte di Trombadori redime e sublima in un sentimento d’Amore.
Certo, poi Trombadori sempre in questo scambio epistolare on line con la Amendola afferma: “In quel che faccio non c’è però rimpianto del passato che non torna. Tu hai anche alluso al senso di una parola tedesca come la “Sehnsucht” che sarebbe “ soggezione al desiderio” o anelito all’irrangiungibile. Nel mio caso, per restare al vocabolario filosofico, parlerei piuttosto di un “ersatz” visivo, il sostituto transitorio di un più ampio bisogno di assoluto. Con i paesaggi italiani e mediterranei, immaginati quale memoria formale di un bene appena vissuto e già sparito, ho cercato di descrivere una sorta di protettivo “hortus conclusus” lontano dai fragori e rumori del presente. Una parentesi estetica, insomma: l’esperienza di un “sogno ad occchi aperti”, come dici tu, da attraversare nella e con la pittura”.
Ecco che allora la cifra dell’Autore si fa non solo “evocativa” di “temi e suggestioni del paesaggio nella cultura figurativa del novecento, ed in particolare di quel versante più intimista, se non proprio solipsista che va dalle atmosfere incantate pur nella loro ossessiva oggettività, alla ricerca della ‘verità’ dello spazio e della luce, del nonno Francesco Trombadori all’esasperato scientismo e al minuzioso naturalismo di Antonio Donghi, alla patetica primordialità di Riccardo Francalancia” – coma nota acutamente Francesco Moschini nel bel Catalogo edito da Maretti-ma sembra andare oltre, perchè in definitiva“Per Duccio Trombadori il dipingere è abbandono che tralascia il mondo reale: su questo aut-aut si innesta il tema tragico, nella impossibiliutà di comporre questi due mondi. Perciò dipingere è per Duccio Trombadori anche un allontanamento, un porre distanza tra sé e sé stesso: definire il luogo del sentimento in contrapposizione al luogo della ragione”-come scrive oltre Francesco Moschini, per poi concludere –“Ma allontanarsi dai luioghi non è comprenderli. Certoi in molti suoi lavori sembra quasi di essere sul punto di oltrepassare la soglia, di attraversare lo specchio, ma crideltà dello specchio è il rimandarci costsntemente la nostra stessa immagine, di fronte alla quale arretriamo impauriti, così come impauriti arretriano di fronte a questi paesaggi che non sappiamo vivere, che dipingiamo per dimenticare”.
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