L’Uomo del Labirinto film di Donato Carrisi. Con Toni Servillo, Dustin Hoffman, Valentina Bellè, Vinicio Marchioni, Caterina Shulha Italia 2019
Il coniglio gigante come presenza inquietante ha avuto, nel cinema varie declinazioni: si parte dal simpatico Harvey, amico immaginario (ma, forse, non troppo) di James Stewart nel film Harvey di Harry Koster (1951), arrivano poi l’inquietante alter-ego di Donnie Darko, nel film del 2001 di Richard Kelly e il sanguinario persecutore di sopravvissuti alla catastrofe nucleare dell’ingiustamente ignorato La notte eterna del coniglio de 2006, diretto da Valerio Boserman; volendo allargare i riferimenti si possono includere nell’elenco anche Chi ha incastrato Roger Rabbit? di Robert Zemeckis, uscito nel 1988 (dove il coniglio, però, è il perseguitato) e – per libera associazione di idee – La notte pazza del conigliaccio nel quale Alfredo Angeli nel 1967 racconta le tragicomiche conseguenze di una notte brava di un impiegatuccio.
Nel 2017 l’esordio alla regia del giallista Donato Carrisi, La ragazza nella nebbia, sembrava aver segnato la nascita di un regista di thriller solidi ed efficaci (al botteghino si registrarono incassi per circa 4 milioni) e ridato respiro al giallo all’italiana che aveva avuto momenti di grande impatto. Il genere è databile, soprattutto, dagli anni ’60 in poi – nel periodo fascista i due film di Raffaello Matarazzo, L’anonima Roylott e Joe il rosso, peraltro non certo memorabili, non avevano avuto epigoni perché il regime (così come aveva fatto togliere la cronaca nera dai giornali) non amava i racconti di delitti e il cinema del dopoguerra era concentrato tra la commedia ed il neorealismo – con autori di varia qualità e un solo vero, grande capolavoro: Un maledetto imbroglio di Pietro Germi (1959). Si sono cimentati nel genere Luigi Comencini (Senza sapere niente di lei del 1969, La donna della domenica, 1975), Tinto Brass (Col cuore in gola, 1966), Francesco Maselli (Fai in fretta ad uccidermi …ho freddo! del 1967) Damiano Damiani (Il rossetto del 1960 e Il sicario del 1961), Elio Petri (L’assassino del ’61 ma in fondo anche Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto del 1970), Vittorio Sindoni (Omicidio per vocazione del ’68), Carlo Vanzina (Mystere del 1983, i due Sotto il vestito niente del 1985 e del 2011) e, ovviamente, Dario Argento.
A fianco c’erano registi meno autoriali ma di tutto rispetto, come Lucio Fulci, Duccio Tessari, Enzo G. Castellari, Stelvio Massi, Sergio Martino, Carlo Cozzi, Sergio Sollima che, con budget limitati, facevano una vera concorrenza – anche internazionale – agli omologhi prodotti americani. Poi il genere si era praticamente trasferito in televisione ma da poco, anche grazie al successo de La ragazza nella nebbia, sembra tornato di attualità; gli ultimi titoli, però, (Il testimone invisibile di Stefano Mordini del 2018 e Non sono un assassino di Andrea Zaccariello del 2019, entrambi con protagonista Scamarcio, avevano un po’ deluso). Spiace dire che L’uomo del labirinto non è certo una conferma: Carrisi lo ha tratto da un non dichiarato spin-off del suo romanzo più noto, Il suggeritore, mantenendo – con qualche indispensabile semplificazione – i tratti e le atmosfere del libro ma il risultato è confuso, farraginoso e poco convincente.
Mentre La ragazza nella nebbia (pur con i troppi finali che ne allentavano la tensione) si snodava sicuro, qui ogni blocco narrativo è come a sé stante e anche la nazionalità indefinita (siamo in Italia ma quasi tutti hanno nomi stranieri e le divise della polizia sono irriconoscibili) non contribuisce a entrare nel racconto, assai poco aiutato dalla scarsissima voglia di recitare dimostrata da Hoffman che, oltre ad uno stereotipato e spesso ingiustificato sorrisetto, ogni tanto, a soggetto, gesticola per dare (immaginiamo) una patina di italianità al personaggio. Servillo fa Servillo, gli altri, per lo più strillano e “fanno le facce”. La regia, inoltre, composta e puntuale nel film d’esordio, qui si perde ogni tanto in spiazzanti ed incongrui movimenti di macchina. Ultimo peccato (in parte veniale perché assai diffuso): si capisce quasi subito chi è il villain. I primi incassi, peraltro, non sono male ed è possibile che L’uomo del labirinto sconti la vulgata del secondo film quasi sempre deludente.
Samantha Andretti (Bellè) a quindici anni dal suo rapimento è stata trovata in un bosco con una gamba rotta e con grandi vuoti di memoria, dovuti alle droghe con cui era stata ininterrottamente tenuta sotto controllo dal rapitore. Di lei si occupa, in clinica, il profiler dottor Green (Hoffman), con il quale lei ha sprazzi di ricordi di una prigione/labirinto e di giochi sadici condotti da un uomo con una maschera di coniglio. Anche il cinico detective privato Bruno Genko (Servillo) – che normalmente si occupa di recupero crediti – ha deciso di seguire il caso; anni prima la famiglia della rapita, conoscendo la sua abilità nel ritrovare i debitori, gli aveva chiesto di cercarla ma lui aveva svolto il compito con scarso impegno e – ora che ha saputo di avere una malattia cardiaca che gli lascia poco tempo di vita – ha deciso di dare la caccia ai rapitori.
La sua amica Linda (Shula), una prostituta che, nonostante tutto, gli è affezionata riesce a raccogliere notizie da un cliente e Genko va a parlare, in un locale malfamato, con l’uomo (Stefano Rossi Giordani) che la ha ritrovata; lui ha il viso e la bocca devastati da cicatrici e, dopo un’iniziale reticenza, gli dice che accanto alla ragazza c’era un uomo-coniglio. Lui va nell’ufficio di polizia che si occupa di persone scomparse; qui l’agente Simon Berish (Marchioni) – a sua volta preoccupato per la misteriosa assenza della sua collega – gli fornisce la pista di un bambino, Rizzo, che era stato rapito, era riuscito a scappare dopo tre giorni e, inspiegabilmente, poco tempo dopo, aveva seppellito vivi i conigli della fattoria/casa-famiglia che lo ospitava. Genko ci va e trova un edificio fatiscente, dove una vecchia zoppa (Carla Cassola), la signora Wilson, lo accompagna in cantina e gli dà un giornalino che il bambino leggeva, “Bunny”, dopo di che lo tramortisce con una stampella.
Lui riesce a fuggire e va da Mordecai Luman (Luis Gnecco), esperto di fumetti, che gli spiega che “Bunny” è un numero unico e, con l’aiuto di uno specchietto, gli mostra come le sue immagini di animaletti siano in realtà disegni satanici. Linda sembra aver trovato una nuova pista ma quando Genko va da lei la trova morta: lei è stata uccisa con una scultura che rappresenta un unicorno e nella vasca da bagno c’è, ferito, il suo ultimo cliente, che ha intravisto l’assassino. Dai due poliziotti accorsi (Orlando Cinque e Filippo Dini) – che lo detestano ma ne conoscono il fiuto – ottiene di poter parlare con la moglie del ferito, signora Lai (Marta Paola Richeldi). Lei sospetta del loro giardiniere (Paul MacInsky), uno strano individuo con una deturpante voglia in faccia, che è appena sparito e Genko va nella parrocchia che l’uomo frequentava. Giuntovi, scopre che anche Rizzo vi andava da bambino e il prete (Diego Facciotti) lo indirizza dal sacrestano Bunny (Sergio Leone). Dopo vari colpi di scena, le intricate vicende si comporranno nella soluzione.
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