Un piacevole stupore all’apertura del sipario alla prima, al Teatro dell’Opera di Roma, di “Orfeo ed Euridice”, una scenografia essenziale ma davvero originale, che ha tenuto gli spettatori concentrati sull’azione, sul canto, sulla storia.
La rivoluzionaria opera di Christoph Willibald Gluck su libretto del letterato Ranieri de’ Calzabigi, che venne rappresentata per la prima volta a Vienna, al Burgtheater, il 5 ottobre del 1762, ritorna dopo 51 anni a Roma, dove sarà in scena sino al 22 marzo, in coproduzione con Théâtre des Champs-Elysées, Château de Versailles Spectacles e Canadian Opera Company.
Direzione magistrale di Gianluca Capuano, per la prima volta sul podio del Costanzi, prima volta anche per l’eclettico e vulcanico regista Robert Carsen che firma anche le luci con Peter Van Praet, scene e costumi di Tobias Hoheisel. Orfeo interpretato dal controtenore Carlo Vistoli, Euridice con la voce di Mariangela Sicilia, l’Amore interpretato da Emoke Barath.
Un’opera in tre atti, che ha fatto storia dando vita alla famosa “riforma gluckiana” con la quale il compositore tedesco e il librettista livornese si proponevano di semplificare al massimo l’azione drammatica, una delle più celebri rappresentazioni del mito di Orfeo e del suo amore per Euridice, una messinscena dell’azione teatrale che coniuga la mitologia del soggetto con cori e danze. Ma facendo un passo indietro nel tempo , è necessario spiegare cosa fu “la riforma gluckiana”.Tutto incominciò nel 1760 , quando il compositore Gluck conobbe Raniero de’ Calzabigi, con cui diede inizio alla riforma del melodramma, che si concretizzò con l’opera “Orfeo ed Euridice “, insieme diedero vita a un nuovo stile in cui la musica doveva suscitare e trasmettere al pubblico le emozioni e gli stati d’animo dei personaggi, con un equilibrio sostanziale tra parole e musica, superando la concezione virtuosistica dello stile italiano. Subì modifiche anche la struttura del melodramma stesso, ridussero gli atti dell’opera ad una successione di brevi scene e semplificarono la trama, che pur restando quasi sempre ancorata alla mitologia classica, assunse un significato etico, in cui le storie dei protagonisti del dramma dovevano assumere un ruolo istruttivo per il pubblico.
Il mito greco a cui egli si ispira, strutturato in tre atti, è incentrato sulla figura di Orfeo, musico ed eroe, noto per aver partecipato all’impresa degli Argonauti per la conquista del Vello d’oro, il quale al suo ritorno, innamoratosi della ninfa Euridice, decise di sposarla e andare a vivere con lei nella Tracia. La leggenda narra che nella valle del fiume Peneo, Euridice, mentre fuggiva tra i campi, cercando di sottrarsi ad un tentativo di stupro da parte di Aristeo, figlio di Apollo, fu morsa mortalmente da un serpente, perdendo la vita. Ma nell’opera di Gluck e de’ Calzabigi, ci sarà un lieto fine, perché l’Amore concederà all’Orfeo innamorato la possibilità di riavere in vita la sua amata, premiandolo per il suo canto e il suo amore appassionato.
Da ricordare parlando di un’opera di rottura, come si può definire senza dubbio “Orfeo ed Euridice”, è il ruolo dei castrati che venivano scelti per interpretare il protagonista, anche se già nelle rappresentazioni parigine del 1774 e 1776 fu lo stesso compositore a farlo interpretare da un tenore aumentando anche l’uso delle trombe, oggi il ruolo di Orfeo è affidato a controtenori che come commenta il Maestro Capuano “stanno riscuotendo un gran successo di pubblico e critica.”
Gluck fu definito un “errabondo”, apprezzato ovunque, al San Carlo di Napoli dalla Corte reale fu definito “il divino boemo”, Papa Benedetto XIV lo insignì dell’onorificenza di Cavaliere dello Sperone d’ oro, fu nominato da Maria Teresa d’Austria “compositore imperiale”, e molti altri furono i titoli di cui si poté fregiare. Fu amato non solo dai mecenati e dagli aristocratici, ma anche dalla borghesia e dagli intellettuali, Rousseau fu un suo estimatore da subito, Voltaire lo divenne in seguito, definendo la sua riforma: “una grande e pacifica rivoluzione musicale.”
Con la macchina del tempo eccoci ritornare nel 2019, all’Opera di Roma, in un allestimento che ha sorpreso il pubblico, abituato si a rivoluzioni nelle rappresentazioni con grandi scenografie e rivisitazioni, ma questa definita da molti essenziale e scarna, credo abbia emozionato più di altre. Spettatrice incantata, ho apprezzato le luci, le ombre, le fiamme degli Inferi e i fuochi della terra. Bianchi i sudari e neri gli abiti dei mortali, i costumi ispirati alla semplicità di un funerale del sud dell’Italia, con un richiamo alla Sicilia, con gli uomini con cappelli e coppole. Un flash e ci si poteva sentire in una tragedia pirandelliana, sino al più contemporaneo Camilleri. Cosa c’è di più immediato di piangere per la morte, per l’amore terreno perduto?
Il coro dell’Opera ha interagito in perfetta sintonia con gli innamorati, intenso il corteo funebre in un sentiero di terra brulla, passi cadenzati e pesanti che ricordano la gravità del dolore e poi la terra che ricopre Euridice e lo strazio di Orfeo pronto al suicidio. Euridice è sotto un cumulo di terra, il sipario si chiude e si scende nell’Oltretomba per ritrovare l’amore e strapparla alla morte pur con il peso di un patto difficile da rispettare, non guardarla, uno strazio che il povero Orfeo non riesce a rispettare.
Non ci sono dubbi oltre al bel canto ed ai suoi interpreti, ai versi e alla musica, all’esecuzione dell’Orchestra e del Coro, questo ritorno tanto voluto dal Sovrintendente Carlo Fuortes, colpisce anche per le scene ed i costumi, per l’atmosfera.
“Con ‘Orfeo ed Euridice’ – dichiara il regista canadese Carsen – cambia per sempre il modo di comporre le opere. Si focalizza interamente ed esclusivamente sulle due cose che definiscono le nostre vite: amore e morte”. Anche per il direttore Capuano “’Orfeo ed Euridice’ ha rivoluzionato la storia del melodramma. Banditi gli infiniti recitativi secchi, le grandi arie con da capo, i capricci dei cantanti. L’orchestra, il coro, i balletti, tutto è al servizio del dramma che si rappresenta in scena”.
All’epoca, sul finir del ‘700, in un clima in cui aleggiava la Rivoluzione, che sarebbe arrivata di lì a poco, il successo europeo di questa opera fu decretato proprio dall’ideazione di un teatro “sovranazionale”, la fusione della tradizione italiana e quella francese.
Quanti spunti di riflessione su ciò che sta accadendo in questo inizio di millennio in un Europa, in crisi e messa in continua discussione, che come recita la Treccani per il termine sovranazionale: “Che trascende considerazioni e fini puramente nazionali, che supera le divisioni di carattere nazionale”. Un mondo in cui l’amore e la morte, sono diventati i titoli di tante vicende giudiziarie, di tante morti innocenti, soprattutto di donne, mentre Orfeo canta disperato la perdita della sua compagna: “Che farò senza Euridice? Dove andrò senza il mio ben? Euridice!”
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