Nel 1962, il 31 marzo debuttò in prima serata sul Secondo Programma della Rai e poi la domenica pomeriggio sul Programma Nazionale, RT – Rotocalco televisivo, un nuovo format inaugurato dal giornalista Enzo Biagi. RT fu il primo prototipo di programma di approfondimento e aprì le danze con la sua prima puntata, 57 anni fa, con grande clamore.
Uno dei tabù di allora nell’informazione era certamente la questione mafia, nonostante le numerose sono state le morti di giornalisti vittime di “lupara bianca”, RT-Rotocalco Televisivo mandò in onda nella sua prima puntata un servizio intitolato Rapporto a Corleone di Gianni Bisiach. «È un grosso centro agricolo a 60 km da Palermo, 15 mila abitanti, 4 mila analfabeti, 3 mila disoccupati», così partì il servizio che descriveva la Corleone degli anni ’60, il comune siciliano che cercava di risollevarsi con la riforma agraria e le iniziative proposte dallo stato e dalla regione, ma con scarsi risultati. Sembrava paralizzata in un passato statico fuori dal tempo, avvolta da un silenzio omicidio-suicida con i suoi abitanti imprigionati in una realtà fuori dal loro controllo.
Cosa nostra aveva in pugno la città: esercitava l’usura dell’acqua, imponeva pedaggi e organizzava furti del bestiame, creando uno stato nello stato la cui arma più forte era la paura della povera gente, rassegnata a vivere nel regno del terrore.
Il servizio partiva proprio dal cimitero della città, un’immagine significativa che delineava subito il problema principale: le morti così dette “accidentali” erano la piaga che affliggeva il paese, numerose erano le sparizioni, le morti e i sequestri, ma nessuno osava parlarne. La storia di Corleone risiedeva, e risiede tuttora, nelle tombe del campo santo ed il primo intervistato quindi fu proprio il becchino del paese. La particolarità dell’intervista fu che l’intervistato prima dichiarò che il 20% delle morti erano morti violente, che quindi gli omicidi di mafia erano molto comuni a Corleone, ma all’arrivo di due sospetti individui il becchino cambiò completamente versione e definì la recente morte di uomo come una “svista”, una morte per errore e che quelli erano solo sporadici incidenti. L’intervistato era visibilmente intimorito dalle due figure nello sfondo della ripresa e le sue risposte si fecero più evasive. Le persone morte e scomparse a Corleone avevano raggiunto numeri impressionanti, eppure la città non si era mai rivolta alle autorità, perché sapevano di rivolgersi ad un organo anch’esso preda della corruzione. «Tutti tacciono, questa è la legge della mafia ed è anche questa a miseria di Corleone», le parole di Bisiach furono lapidarie ma più che appropriate per descrivere la realtà del paese siciliano, comune anche a molti altri paesi italiani.
Un altro aspetto indagato dall’inviato di RT fu la migrazione forzata; molti contadini non avevano più terre da coltivare ed erano costretti a lasciare il paese alla ricerca di fortuna altrove. «Non si può vivere a Corleone. C’è disoccupazione…» così affermò un intervistato che a breve sarebbe partito per Monaco, come del resto avevano già fatto 4 mila dei suoi compaesani. Dall’inchiesta emerse la vera motivazione delle partenze di massa, ovvero la confisca dei terreni o il furto del bestiame da parte delle potenti famiglie malavitose che stavano impoverendo il paese a loro vantaggio, imponendo uno sradicamento dei residenti verso una nuova casa.
L’indagine si spinse sempre più affondo e per la prima volta nella storia del giornalismo vennero citati i nomi di criminali mafiosi riguardo al caso di Placido Rizzotto, ucciso quattordici anni prima. Il sindacalista socialista venne sequestrato e portato via dalla piazza del paese per essere ucciso a colpi di lupara e gettato nelle foibe di Rocca Busambra. Anche qui nessuno sapeva né aveva visto niente. Dal fratello al padre del sindacalista, le telecamere della Rai entrarono nelle case delle vittime per ricostruire la storia della famiglia Rizzotto.
Due uomini, Vincenzo Collura e Pasquale Criscione, dichiararono di aver partecipato all’omicidio insieme al latitante Luciano Leggio, diventato Liggio per un errore di trascrizione di un brigadiere, tutti sicari del boss mafioso, medico del paese, Michele Navarro. In sede processuale però i due testimoni ritrattarono le dichiarazioni e vennero assolti per insufficienza di prove. Del caso si occupò l’allora capitano dei carabinieri Carlo Alberto Della Chiesa, noto alla cronaca per il suo lavoro antimafia e per la sua prematura morte, vittima di Cosa nostra. Solo nel 2009 vennero ritrovati i resti del corpo di Rizzotto e tre anni dopo venne accertato la corrispondenza tra i ritrovamenti e Placido, nel 2012 si svolsero i funerali di Stato alla presenza del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Se ritorniamo all’intervista del ’62 i primi piani del signor Rizzotto, padre di Placido, furono di grande impatto, nei suoi occhi c’era un dolore per il quale non avrebbe mai avuto pace né giustizia.
Quelli furono gli anni della nascita di un nuovo clan mafioso, quello del latitante Liggio che combatteva la sua guerra contro la vecchia mafia di Navarro tra le strade di Corleone. Le telecamere attraversarono le vie che fecero da scenario ad una delle sparatorie più cruente nella storia di Corleone. Il 6 settembre 1958, in via Adriano Canzonieri, Marco e Giovanni Marino e Pietro Maiuri vennero attaccati dal fuoco nemico degli scagnozzi di Navarro che cercavano vendetta per la morte del loro boss ucciso su comando di Liggio. Dopo quel giorno Corleone passò nelle mani della giovane mafia a cui faceva capo Luciano Liggio.
Le riprese dinamiche ci fanno ripercorrere la sparatoria in tutte le sue fasi, le strade deserte del paese, gli sguardi severi della gente, lasciano spazio all’immaginazione che corre a ricostruire gli eventi di quel giorno rosso. I panni stesi che svolazzano in balia del vento sembrano le anime dei corleonesi, anche loro in balia di un vento mafioso al quale non possono opporsi. «Non so niente, non so niente…» fu la frase che sentirono ripetere di più, questo creò difficoltà ai giornalisti nel raccogliere materiale per costruire un servizio di un certo contenuto, ma nonostante questo riuscirono a trovare due uomini che accettarono di parlare in video. Uno fu l’ex sindaco Giuseppe di Palermo che dichiarò apertamente la paura di parlare dei suoi concittadini, terrorizzati da eventuali ripercussioni su di loro o sulle loro famiglie. L’altro, che acconsentì all’intervista purché non venisse mostrato il suo volto, accusò lo Stato e le autorità di non sostenere i cittadini e di non proteggerli, di conseguenza, a queste condizioni, nessuno aveva il coraggio di ribellarsi.
È questo il contesto che gli inviati di RT volevano denunciare e portare all’attenzione del pubblico, uno schiaffo in piena faccia che svegliasse l’Italia dall’ignoranza.
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