Film di Steve McQueen (II). Con Viola Davis, Michelle Rodriguez, Elizabeth Debicki, Cynthia Erivo, Colin Farrell Gran Bretagna 2018.
Harry Rawilngs (Liam Neeson) – un ladro con un’esistenza agiata ed apparentemente irreprensibile – insieme a Florek (John Bernrhal), Carlos (Manule Gracia-Rulfo) e Jimmy (Coburn Goss) ha appena rapinato due milioni di dollari ma lui, i suoi complici e i soldi sono andati distrutti in uno scontro con la polizia. Subito dopo la cerimonia funebre, Veronica (Davis), la sua vedova, riceve la minacciosa visita del gangster Jamal Manning (Brian Tyree Henry): quei due milioni erano suoi e gli servivano per affrontare la campagna elettorale distrettuale contro la potente famiglia Mulligan, per cui ora lei ha pochi giorni per rifondergli, pena la morte, l’intera somma. Anche Linda (Rodriguez) e Alice (Debicki) – le mogli di Carlos e Florek – non se la passano bene: la prima perde il negozio di vestiti, con il quale viveva, per i debiti di gioco del marito e la seconda, senza più l’appoggio del manesco ma prodigo marito, viene costretta dall’avida madre, Agnieska (Jacki Weaver), a prostituirsi.
Intanto Jack Mulligan (Farrell), pur in disaccordo con i metodi del padre, Tom (Robert Duvall), affronta una battaglia elettorale complicata con sondaggi preoccupanti, scandali incombenti e fuga di importanti gestori di pacchetti di voti che si spostano verso l’avversario, come l’ambiguo reverendo Wheeler (John Michael Hill). Veronica trova in una cassetta di sicurezza l’agenda del marito, che riporta tutti i particolari della sua attività criminale e la descrizione di una rapina che si preparava a mettere a segno. Incontra Linda ed Alice e propone loro di attuare il colpo, che prevede un bottino di cinque milioni, in modo da pagare Jamal e dividersi un milione a testa. Le due donne accettano e si mettono al lavoro: procurano facilmente le pistole e Alice, facendo perdere la testa ad un famoso architetto suo cliente, David (Lukas Haas), riesce ad individuare il luogo da rapinare: è la villa dei Mulligan (i 5 milioni son il frutto di una grossa tangente edilizia).
Manning, intanto, fa tallonare Veronica dal violento fratello Jatemme (Daniel Kaluuya), che – per avere notizie delle intenzioni della donna – tortura il vecchio amico di Harry, Bobby (Kevin J. O’Connor) e uccide il loro fedele autista Bash (Garret Dillahunt). Veronica è spaventata ma decisa e si rende conto che serve un’autista per il colpo; va da Amanda (Carrie Coon), la vedova di Jimmy, per proporglielo ma, mentre è in casa sua, l’abbaiare del cagnetto che porta sempre con se le fa intuire che Harry non è morto ed è nascosto lì. Sconvolta, se ne va e accetta che il furgone del colpo sia guidato da Belle (Erivo), una tostissima parrucchiera, che, per mantenere la famiglia, fa spesso la babysitter per Linda. Dopo un sopralluogo dai Mulligan, le quattro donne mettono a segno il colpo; Tom, però, le sorprende e sta per ucciderle ma Veronica spara per prima. All’uscita le aspetta, pistola in pugno, Jatemme che se ne va con il furgone e i soldi ma…
Il film è tratto da una serie inglese di successo degli anni ’80, Widows, scritta dalla prestigiosa Lynda La Plante (autrice anche del famoso serial Prime Suspect), che rappresentava una grande novità dal punto di vista televisivo: una storia di rapina con protagoniste delle donne. Al cinema si era già visto: dal polàr Rififì tra le donne di Alex Joffe del ’59 al pop grottesco Faster, Pussycat! Kill! Kill! di Russ Meyer (’65), fino ai recenti Grindhouse – A prova di morte (2007), gioco di modernariato di Quentin Tarantino e Robert Rodriguez e il corposo Ocean’s 8, con il quale nel 2018 Gary Ross proseguiva la serie degli Ocean’s. Widows, però, a ben vedere prima che un heist movie è un film di Steve McQueen: non sono tanto la messa in atto del colpo e i suoi sottofinali ad essere al centro del racconto, quanto la dolorosa determinazione delle donne – non confortate neppure da un briciolo di solidarietà reciproca (non sono amiche e, salvo, un lieve sorriso finale tra Veronica ed Alice, mai lo saranno) – a essere il centro emozionale del plot. Anche la inevitabile ed endemica corruzione della politica fa solo da sfondo ad un racconto sorprendentemente intimista (aiutato non solo dalla bravura delle attrici ma anche dalle efficaci scenografie di Adam Stockhausen), che, pur nei limiti di un film di genere, ci riporta – dopo il corretto e solido 12 anni schiavo – alle angosciate rarefazioni di Shame.
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