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Basta! Lilli Gruber contro la politica del testosterone

“Grazie spettatrici e spettatori”: è con questa formula, ormai familiare per chi segue il suo preserale di approfondimento politico, che ogni sera dal lunedì al sabato su La7, chiudendo Otto e mezzo, Lilli Gruber saluta il suo pubblico.

Spettatrici e spettatori. La precedenza del sostantivo femminile nel suo saluto di rito non è certo riducibile alla sola educazione, è una chiara scelta di campo. Una scelta ribadita ogni volta in cui uno dei tanti uomini ospiti nel suo studio si permette di sminuire una donna o di velare il suo discorso con una punta di una ancora diffusa e sottovalutata misoginia. Eccola, Lilli Gruber, che mette i gomiti sul tavolo e con spirito battagliero butta lì una frase puntuta e urticante che blocca immediatamente ogni possibile equivoco sulla centralità della donna e sull’importanza di continuare a combattere per una parità di genere che il mondo è ancora ben lontano dall’aver raggiunta. E in quel momento il suo interlocutore probabilmente si maledice per non aver saputo individuare preventivamente i punti del suo discorso tacciabili di misoginia aggiustando il tiro.

Il punto è che la misoginia è talmente radicata nella maggior parte delle culture del mondo che molti uomini (non tutti ovviamente), spesso in buonafede, non si rendono neppure conto che è proprio la loro struttura mentale, retaggio di un millenario patriarcato, a portarli naturalmente a vedere nella donna una quasi cromosomica subalternità. A questi uomini (quelli in buona fede) la Gruber si rivolge come a possibili alleati nella lotta al raggiungimento di una parità di genere che porterebbe benefici (secondo autorevoli ricerche, anche economici) per tutti e in tutto il mondo. Con tutti gli altri, la guerra è dichiarata.

“Pace a tutti gli uomini di buona volontà, ma guerra agli altri. Perché ne abbiamo abbastanza” questa è la frase che apre il risvolto di copertina del suo ultimo libro Basta! Il potere delle donne contro la politica del testosterone edito da Solferino, in cui, dati (e molti) alla mano, Lilli Gruber ci dimostra che no, la parità di genere non è raggiunta e che, anzi, siamo ancora molto lontani dall’obiettivo.

Lilli Gruber: “I numeri contano”

Leggendo questo piccolo ma illuminante libricino ci scontriamo con una realtà discriminatoria che va dal gap salariale tra uomini e donne (in Europa la media è di quasi il 16%) fino all’esiguità del numero di donne che occupano posti di potere nel mondo (il dato europeo è di appena 6,5% di donne amministratori delegati delle più importanti società quotate).

Vale sempre la pena ricordare che in Italia non abbiamo mai avuto una donna alla Presidenza del Consiglio, né tantomeno al Quirinale, e in Europa attualmente, tra capi di governo e Presidenti della Repubblica, solo 7 paesi su 28 hanno una donna come leader. E non ci si venga a dire che le recenti nomine di Christine Lagarde alla guida della Bce o di Ursula von der Leyen come presidente della Commissione europea siano un segnale chiaro che la situazione è ormai ribaltata, perché non è così. Queste due nomine segnano semmai un fondamentale passo nel cammino verso la parità, ancora molto lungo. Secondo quanto riportato da Lilli Gruber che cita uno studio del World Economic Forum di giugno 2019, questo cammino durerà 108 anni. Se tutto va bene.

Tra i tanti dati riportati dalla Gruber, che toccano ogni ambito della società, dallo sport all’audiovisivo, dal giornalismo alla chiesa cattolica fino allo stesso ambito famigliare, uno su tutti si è impresso nella mia mente e dà un’idea chiara di come il mondo in cui viviamo sia sostanzialmente un mondo a misura di maschio. Le statistiche sugli incidenti stradali dal 1960 a oggi mostrano che le donne hanno meno incidenti stradali rispetto agli uomini ma che in caso di incidente hanno il 17% di possibilità in più di rimanere uccise e il 47% di possibilità in più di subire danni gravi. Sapete perché? Perché i famosi manichini asessuati con cui vengono condotti i crash test non sono affatto asessuati, sono di fatto uomini. Riportando uno studio pubblicato su “ScienceDirect”, Lilli Gruber scrive “le auto sono disegnate tenendo presente misure e caratteristiche del corpo del guidatore, non della guidatrice. Quelle dei manichini […] Loro quindi non si fanno male, mentre una manichina probabilmente se ne farebbe eccome.”

Un dato agghiacciante che dimostra come la donna sia ancora sostanzialmente considerata una creatura di secondo ordine. Inferiore, irrilevante, sacrificabile.

Violenza e pregiudizi

Di fronte a quel breve paragrafo il mio pensiero è andato immediatamente alle donne orientali descritte quasi sessant’anni fa da Oriana Fallaci in Il sesso inutile, uno dei tanti, meravigliosi reportage di quella coraggiosa giornalista e straordinaria narratrice oggetto negli ultimi anni di feroci critiche (per le sue posizioni anti-islamiche post 11 settembre) e di una strumentalizzazione che certo non rendono merito alla vita di una donna, che a partire dall’infanzia come staffetta partigiana, si è sempre esposta in prima linea.

Il mio pensiero è andato alle vedove cinesi che dovevano lasciarsi morire di fame o alle ragazzine a cui fasciavano i piedini fino a spezzare le ossa per impedirgli di crescere, alle indiane che si gettavano nel rogo in cui si cremava il marito defunto, alle mussulmane lapidate perché i novelli mariti avevano avanzato il dubbio che non fossero vergini.

Per fortuna, o meglio grazie alle lotte per la rivendicazione dei diritti delle donne, oggi la situazione in tutto il mondo è migliorata, ma non del tutto risanata: i piedi di loto in Cina sopravvivono solo in alcune anziane, testimoni viventi di una atroce tortura, ma in alcuni paesi le donne le lapidano ancora, per non parlare della mutilazione genitale.

E neanche nel “civilissimo” occidente siamo ancora al punto di poter cantare vittoria. Per rendersene conto basta leggere i dati sulle molestie, le violenze e i femminicidi.

Secondo il rapporto dell’Istat, che riporta i dati forniti dal Ministero dell’Interno, nel 2018 in Italia sono state 133 le vittime donne, uccise nell’81,2% dei casi da una persona conosciuta (nel 54,9% dei casi dal partner attuale o dal precedente). Sempre l’Istat, lo scorso 25 novembre, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, ha diffuso per la prima volta i dati dell’indagine Gli stereotipi sui ruoli di genere e l’immagine sociale della violenza sessuale e i risultati sono sconfortanti.

Il 39,3% della popolazione italiana pensa che una donna, se proprio non lo vuole, sia in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale. Il 23,9% della popolazione italiana pensa che il modo di vestire di una donna possa provocare la violenza sessuale. Il 6,2% della popolazione italiana pensa che le donne serie non vengono violentate. Le donne serie. Ma chi sono le donne serie? Quelle che non indossano mai una minigonna? Quelle che non escono mai con le amiche? Quelle a cui non capita mai di alzare un po’ il gomito?

Il maschiocentrismo

Proprio pochi giorni fa, mi è capitato di ascoltare un uomo affermare, a commento di questi dati diffusi dal telegiornale, che “oggi, però, certe donne vestono in modo troppo provocante. Prima queste cose non succedevano”. Eh no, prima queste cose non succedevano, ha ragione. Prima le donne dovevano solo pensare a crescere i bambini, non potevano studiare perché i padri erano convinti che il loro posto fosse a casa, a badare alla famiglia. Prima le donne non potevano pretendere di ricevere la loro parte di piacere dai mariti, anzi, dovevano sopportare tradimenti e soprusi, mute. E se per caso veniva loro in mente di fare la stessa cosa, potevano anche venire ammazzate, tanto poi gli uomini se la cavavano con una tirata d’orecchio perché lo Stato gli riconosceva l’offesa all’onore ricevuta. Che fosse la moglie, la figlia o la sorella era lo stesso. Si chiamava delitto d’onore ed è stata legge dello Stato fino al 1981.

Queste non sono esagerazioni, luoghi comuni o patetismi, sono i racconti delle nostre nonne.

Di passi avanti ne abbiamo fatti tanti in questi anni, ma ci sono pregiudizi ancora molto radicati nella mente degli uomini e, quel che è peggio, anche delle donne. Assistiamo troppo spesso a una “guerra tra povere” mentre dovremmo imparare a tenere la barra dritta e puntare alla sacrosanta parità. Mi è capitato diverse volte di sentire amiche e colleghe lamentarsi di esperienze lavorative passate in cui avevano avuto una donna come capo e molto spesso non erano racconti piacevoli.

Premesso che le donne non sono tutte né meritevoli né adamantine in quanto tali (ci faremmo un torto se tentassimo di inserirci tutte in un gruppo indistinto senza rispettare la complessità psicologica di ognuna di noi), ma è altamente probabile che, per arrivare a occupare una posizione di potere, una donna abbia dovuto faticare molto più di un uomo, acquisendone spesso i tratti peggiori (altra doverosa precisazione, neanche gli uomini sono tutti uguali).

Non a caso, di una donna grintosa e di successo si dice spesso che “ha le palle”, e chissà quante volte lo avranno detto della stessa Lilli Gruber, prima donna a condurre un telegiornale di prima serata nel 1987. Come se per riuscire una donna avesse sempre bisogno degli attributi maschili e non le bastassero i propri punti di forza. La nostra è una realtà ancora, profondamente, maschiocentrica in cui spesso la donna è costretta a interpretare la parte dell’uomo per emergere. E sono certa che ne farebbe volentieri a meno.

Il giorno in cui sarà normale avere una Presidente della Repubblica, il giorno in cui non sarà più necessario avere una Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, sarà possibile godere delle differenze che esistono tra uomo e donna e che dovrebbero rendere la nostra vita molto più divertente e ricca di quanto non sia adesso, ma fino ad allora ci saranno da compiere delle forzature. In questo cammino, gli uomini dovrebbero essere al nostro fianco.

Purtroppo stiamo vivendo una fase della nostra storia in cui, forse proprio come reazione alla sempre più crescente emancipazione femminile, alcuni uomini tendono a confondere la virilità con il machismo e a ribadire la propria forza con comportamenti che, se da una parte si limitano a indicare una chiara mancanza di senso del ridicolo, dall’altra possono anche diventare predatori. Ahinoi, molti di questi uomini sono attualmente alla guida di alcune tra le più grandi potenze mondiali.

La speranza è che non si continuino a fare passi indietro legittimando ulteriormente le azioni di certi figuri, perché vanificheremmo molti degli sforzi fatti finora a livello globale.

Abbiamo due battaglie fondamentali da portare avanti oggi, la prima è per la parità di genere e la seconda è contro i cambiamenti climatici (e probabilmente non è un caso che alla guida del movimento Fridays for Future ci sia una ragazza). La sensazione è che i Trump, i Putin e i Bolsonaro siano fuori tempo, che siano leader anacronistici. Prima ce ne rendiamo conto tutti, prima riusciremo a rimettere insieme i pezzi della nostra civiltà, ricostruendola con criteri più equi. Quella che si deve portare avanti, quella per cui la Gruber fa appello a tutte le donne perché la combattano insieme, non è una battaglia contro gli uomini, ma una battaglia contro un maschilismo imperante da secoli.

Il sistema deve cambiare e per farlo c’è bisogno che cambi radicalmente la nostra cultura e la visione della donna in tutto il mondo. Sarebbe ora. Perché, ha ragione Lilli Gruber, “ne abbiamo abbastanza”.

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