È recentemente uscito per Minimum Fax, curato da Laura Bartoli, L’anima degli affari. Lettere e riflessioni sul mestiere di scrivere. Una raccolta che getta luce sulle tante anime di Charles Dickens, al di là della figura di impareggiabile romanziere che tutti conosciamo.
Oliver Twist, David Copperfield, Grandi speranze, Canto di Natale: il nome di Dickens lo associamo sempre ai racconti che ci ha consegnato, alle sue grandi storie, a quella galleria di personaggi impareggiabili, al suo gusto unico per i nomi, all’atmosfera tetra dei quartieri poveri di Londra.
Non tutti, però, conoscono il Dickens infaticabile direttore di giornali, il Dickens giornalista e conferenziere, intrattenitore del grande pubblico, paladino del diritto d’autore. E non tutti conoscono la modalità con cui creò quelle stesse storie che hanno nutrito la nostra immaginazione di lettori fin da Il Circolo Pickwick.
Una modalità, quella del romanzo a puntate, che lo portò a mettere a punto una tecnica infallibile, “a piccoli sorsi”, per lasciare il lettore incollato alla sua trama fino all’uscita del prossimo numero.
È così che creò un’arte insuperabile e si consegnò, lui stesso, pioniere delle tecniche di marketing e di autopromozione, alla storia.
Leggendo le tante lettere raccolte in questo bel libro, si resta ammirati dalla sua determinazione, dall’inesauribile energia e dal modo con cui disegna i suoi personaggi e li fa evolvere nella storia.
Nella prima parte del libro dedicata all’arte della narrativa emerge il suo attaccamento ai personaggi, la sua capacità di “vederli” davvero e di renderli quindi vivi sulla pagina.
La modalità di scrittura a puntate rafforzò il suo rapporto con il pubblico che gli scriveva costantemente, per lamentarsi di una qualche svolta o per avanzare precise richieste sullo sviluppo della trama.
Bellissima la lettera indirizzata a un bambino di cinque anni che si era lamentato con lo scrittore di Nicholas Nickleby perché a suo avviso non aveva punito Squeers a dovere.
È soprattutto nelle lettere a John Forster, amico e sorta di agente letterario, che si evidenziano le dinamiche del suo processo creativo. E anche la sua abnegazione verso il mestiere di scrittore.
“Nessuno scrittore ha mostrato più di Charles Dickens una piena consapevolezza del proprio mestiere” si legge nella quarta di copertina de L’anima degli affari. Dickens ha lottato per il riconoscimento delle professioni letterarie nel suo paese ma anche, forte del successo planetario di cui godeva, per il riconoscimento del diritto d’autore per gli scrittori stranieri in America.
Purtroppo non visse abbastanza a lungo per vedere i risultati del suo impegno, ma mantenne coerentemente le sue posizioni fino alla fine dei suoi giorni.
Dickens non era solo consapevole del proprio mestiere, ma anche della propria arte. Si autodefiniva “l’inimitabile” (e aveva ragione) mostrando una incrollabile fiducia nei propri mezzi. Probabilmente, fu proprio questa sua granitica sicurezza in sé stesso, oltre al suo mestiere di direttore di giornale, che lo portò ad aprirsi ai lavori di altri scrittori e a cercare nuove voci da promuovere.
Dispensava consigli con gentilezza e acume ma sapeva come mettere a segno una stilettata a chi lo meritava. Nelle sue lettere non mancano le frasi lapidarie indirizzate ad aspiranti scrittori rei di aver assunto un qualche atteggiamento da lui ritenuto offensivo, come indirizzargli lettere in forma anonima o confondere la scrittura con una forma di svago per il tempo libero.
L’aspetto che si conosce probabilmente meno della vita del Dickens professionista della scrittura è quello affrontato nel terzo e ultimo capitolo de L’anima degli affari ovvero le letture in pubblico.
Quel mare d’applausi è il titolo che è stato dato a questa terza parte. Come gli altri, è tratto da una lettera dell’autore e rende l’idea dello straordinario successo di pubblico del Dickens oratore.
Furono vere e proprie tournée quelle organizzate da Dickens e dal suo prezioso collaboratore Arthur Smith. E fecero il pieno di pubblico non solo in Inghilterra ma anche oltre oceano. Dickens era una star, con grandi capacità di intrattenitore ed è un vero peccato che nessuno strumento abbia mai registrato la sua voce.
Non lasciava nulla al caso, tutto era studiato per offrire al pubblico una perfetta lettura delle sue opere. A partire dalla forma dello stesso leggio, oggi conservato presso il Charles Dickens Museum di Londra.
Verso i suoi personaggi il pubblico dimostrava un attaccamento e un affetto di rara intensità. Il suo successo fu la naturale conseguenza della combinazione di un caparbio impegno nella promozione di sé stesso e di una sopraffina arte dello scrivere.
Dickens era dotato di uno straordinario dono naturale ma dimostrò anche che solo con il duro lavoro si diventa grandi scrittori. E questo è un insegnamento che vale oggi più che mai.
La forza delle sue storie deriva dalla sua visione del mondo, da quella inesauribile “fede nell’esistenza […] e in tutto ciò che è bello, persino tra le classi sociali più disagiate, miserabili e indifese”. E tra le ragioni per cui oggi ancora lo amiamo c’è quella sua capacità unica di “rimpiazzare gli orrori della morte, così profondamente scolpiti, con un mazzolino di fiori freschi”.
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