Teatro

Emergenze teatrali nella pandemia

Da più di un anno ormai viviamo in una fase di emergenza costante dettata dalla pandemia da Covid-19. Le restrizioni che il governo ha adottato per cercare di arginare le tre ondate del virus, che si sono susseguite in questi mesi quasi senza soluzione di continuità, hanno colpito e continuano a colpire drammaticamente alcuni settori più di altri. Il comparto dello spettacolo dal vivo è certamente uno dei settori che più ha risentito delle limitazioni alla socialità e che vive tuttora in uno stato di incertezza, perché è per definizione, ontologicamente, qualcosa che prevede un esserci, un accadere, in un certo luogo e in un determinato momento, non trasferibile. 

Di spettacolo dal vivo, e più specificatamente di teatro, parliamo in questo incontro, ospitato all’interno della rubrica “Quattro chiacchiere con…” e moderato da Fabio Galadini, che vede ospiti i rappresentanti di tre importanti realtà teatrali, tra Bergamo, Roma e Genova. Il titolo che si è voluto dare a questa chiacchierata tra operatori del settore, ovvero “Emergenze teatrali nella pandemia”, tocca due livelli di significato. Emergenza come urgenza, allarme, sirene puntate sul teatro che soffre in un paese che soffre; ma emergenza anche come disvelamento, individuazione delle nuove realtà che affiorano e da cui, magari, possiamo ripartire.

Il tema che emerge significativamente dalla discussione è quello del rapporto tra la scena e le tecnologie che si è provato a mobilitare, per permettere in qualche modo al teatro di continuare a essere fruito dal pubblico. Diversi teatri hanno scelto di spostare la propria stagione sulle piattaforme streaming, altri hanno preferito aspettare e stanno ancora aspettando la riapertura promessa. Quel che è certo però, e almeno questa è la convinzione degli ospiti del salotto virtuale di Moondo, è che il ricorso al mezzo video, pur aprendo una riflessione estetica sulla possibilità di nuovi interessanti linguaggi, non deve e non può sostituire la scena reale sulla quale da 2500 anni il teatro si confronta.

 “Una delle poche cose positive che sono successe quest’anno, come mia percezione, che mi rassicura anche, è il fatto che il teatro abbia attestato la sua impossibilità, in qualche modo, di essere trasferito altrove, non dal teatro come luogo fisico ma dal teatro come presenza, come compresenza delle persone.” Lo afferma convintamente Francesco Montagna, co-direttore di Carrozzerie n.o.t., una ormai consolidata realtà romana, importante spazio cittadino per la ricerca e lo sviluppo di progettualità legate al teatro e alle arti performative. “Il teatro ha qualcosa di irriducibile che non può essere addomesticata, cioè forse ha veramente ancora questo primato totale per cui non può in nessun modo riadattarsi e non vuole riadattarsi. […] Quando tutto questo finirà, tutti questi tentativi saranno archiviati immediatamente.”

Le prospettive che questo anno pandemico ha aperto per il teatro riguardano soprattutto il modo in cui gli operatori riaffermeranno, se ce ne sarà bisogno, la centralità della scena rispetto ai suoi surrogati. Appare fondamentale operare una netta distinzione tra ciò che è teatro e ciò che, semplicemente, non lo è. “L’importante è mantenere molto chiara e molto viva la riflessione sulla performatività”. Avverte David Baronio, co-direttore del Teatro Akropolis di Genova, una realtà nata all’interno dell’università e poi cresciuta e sviluppatasi fino a diventare un punto di riferimento, non solo cittadino, per la ricerca teatrale. “La performatività è qualcosa che non può essere derogata e non può essere surrogata a mezzi impermeabili come il video. È vero però altrettanto che il video ha molte altre possibilità che possono interagire con un’esperienza che viene dal teatro. Mi viene in mente un esempio abbastanza interessante che è la videodanza, cioè il fatto che esistono delle coreografie che sono fatte per essere riprese e non per essere mostrate dal vivo. E quindi sulla scorta di questo tipo di riflessione estetica, io penso che anche il teatro abbia molto da dire, però naturalmente non essendo più teatro, perché il teatro è la scena. Parliamo di altre cose che forse un nome non ce l’hanno ancora”.

La scena è insomma imprescindibile per chi fa teatro e questo anno di distanza dal palcoscenico ha messo a dura prova artisti e compagnie. Giovani realtà come la compagnia Les Moustaches di Bergamo, guidata da Alberto Fumagalli (che alla vigilia dello scoppio della pandemia trionfava nell’edizione 2020 del Roma Fringe Festival con lo spettacolo “La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza”) hanno visto interrompersi bruscamente tournée e percorsi di progettazione che, soprattutto nel teatro, hanno bisogno di molto tempo e duro lavoro per poter essere sviluppati. “C’è una grande difficoltà nel progetto, quindi il domani, il futuro è un po’ ad oggi annebbiato. E questa è la cosa che ci mette più in difficoltà”, ammette Fumagalli. “Dalla grande festa si è piombati in questo incubo che ovviamente ha accompagnato tutti quanti. La prospettiva di un anno molto bello, molto ricco di sorprese come doveva essere il 2020/2021… invece è stato molto brutto, diciamoci la verità”. 

Un anno dal quale, se la campagna di vaccinazione prosegue come promesso, si spera di uscire presto. 

“Le cicatrici probabilmente rimarranno – dice Fumagalli – poi si dice che a volte la cicatrice rende anche più affascinanti. Magari saremo ancora più affascinanti una volta che recupereremo il nostro lavoro”.

Ce lo auguriamo.

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