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France, il film di Bruno Dumont sulla finzione del vero

Presentato in concorso al 74° Festival di Cannes, France, ultimo film firmato dal regista Bruno Dumont, nasconde dietro una critica al sistema mediatico occidentale un’analisi del concetto di realtà nella società dell’informazione. Distribuito in Italia da Academy Two è in sala dal 21 ottobre.

La storia

France de Meurs (Léa Seydoux) è la più popolare giornalista televisiva di Francia. Il suo programma “Un regard sur le monde” (“Uno sguardo sul mondo”) è uno dei più popolari del paese e i suoi reportage dalle zone di guerra sono seguitissimi. Il suo volto è ovunque. La sua vita è costantemente sotto i riflettori, cui lei si concede di buona grazia. France è una star, ben consapevole di esserlo, e il pubblico la adora.

Una esistenza apparentemente perfetta, la sua, che comincia a sgretolarsi la mattina in cui, sotto gli sguardi dei passanti e l’obiettivo insistente dei paparazzi, investe accidentalmente con l’auto un giovane di origini marocchine alla guida di uno scooter. L’incidente, nonostante le lievi ferite riportate dal ragazzo, la sprofonda in una crisi esistenziale che la porta a mettere in discussione ogni aspetto della sua vita: il suo matrimonio, la fama, la smisurata ricchezza e la sua etica del lavoro.

France, un film complesso apparentemente semplice

Se leggessimo France come una mera acida critica al mondo dell’informazione, il giudizio sull’ultimo film di Bruno Dumont non potrebbe essere pienamente positivo e anzi si dovrebbe parlare di una pellicola fin troppo didascalica e a tratti stucchevole.

Bisogna quindi, a nostro avviso, tentare di andare oltre questa prima lettura che il film stesso sembra volerci offrire su un piatto d’argento per arrivare a toccare uno strato meno superficiale di analisi secondo il quale, qui, a essere messo in discussione da parte del regista-filosofo francese è il concetto stesso di realtà.

La vita e i metodi di una star del giornalismo televisivo sono effettivamente l’ambiente ideale per questo tipo di indagine, dove il limite tra verità e finzione si assottiglia fino alle dimensione di un capello.

Léa Seydoux, protagonista assoluta del film sul cui volto ipnotico si sofferma lungamente (anche troppo) la camera di Dumont, è molto brava a rendere la contraddizione e l’inganno di cui essa è soprattutto artefice ma anche vittima.

Léa Seydoux in un scena di France

Cosa ci dice France? Che il reale non è sufficiente per esibire sé stesso. Che ha bisogno di essere veicolato attraverso un linguaggio in grado di essere compreso e “sentito” dal pubblico.

I reportage realizzati da France de Meurs sono sì girati in vere zone di guerra ma seguono un preciso linguaggio filmico. I guerriglieri vengono fatti muovere in un certo modo, vengono ripresi da determinate angolazioni perché ciò che conta è raccontare una storia.

Quello che dovrebbe essere vero di per sé, viene filtrato attraverso un codice di comunicazione per poi essere rivenduto come vero. Vedendo queste scene, però, persino la verità della guerra appare una finzione; e le armi dei guerriglieri giocattoli da bambini. È la finzione del vero.

Il protocollo dell’informazione (agenda setting) finisce per diventare il sistema operativo che accende la nostra esistenza, senza il quale non decifriamo il reale. Quando France mette in discussione l’etica del suo lavoro, è della sua intera vita che comincia a dubitare. Sente crollare tutto il sistema di valori su cui ha costruito la sua intera esistenza e finisce per non riconoscersi più. Si perde. Non interpreta più la realtà per poterla esibire in un linguaggio comprensibile: in quel momento lei è nel reale. Da qui, la crisi.

Lei vive nello spazio tra realtà e rappresentazione, in cui fa balletti scemi davanti alla telecamera in attesa di registrare, mentre bombe vere le esplodono intorno vicinissime. Lei esiste in questa distanza, in questa scollatura. In un eterno presente che è l’immanenza della notizia. “Conta solo il presente” dice la Seydoux nel bel monologo finale. Se ti fermi a pensare, sei finito. Non si può indugiare troppo sull’immagine di una ragazzina stuprata e uccisa. Bisogna voltarsi, più in là c’è un bel paesaggio da ammirare.

Bruno Dumont chiama la protagonista del film France perché lei è lo specchio del suo paese e di tutta una parte di mondo, quello occidentale dominato dal sistema mediatico.

Non c’è differenza tra la ricchissima giornalista e la povera famiglia marocchina del giovane che ha investito. Loro la accolgono in casa come l’angelo del signore che li onora della sua presenza. Sono tutti parte di uno stesso sistema che nella familiarità dei contatti offerta dai social e dalla tv che “ti entra in casa” regala l’illusione di un livellamento tra le classi.

E intanto fuori da questa bolla anestetizzante schegge impazzite manifestano una rabbia genuina e vera che spesso sfugge alla comprensione di chi governa, fino a che anche loro non vengono fagocitate, triturate e riassemblate a bella posta per la diretta tv.

In una scena del film, uno dei tanti politici ospiti della sua trasmissione dice a France che la differenza principale tra i politici e i giornalisti è che i primi si rivolgono agli elettori e i secondi ai telespettatori. “C’è differenza?” chiede lei con sarcasmo. C’è differenza? Non nella società dell’informazione in cui viviamo. Consapevoli o no.

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