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Gemito. Dalla scultura al disegno

Il genio dell’abbandono” di Wanda Marasco, Neri Pozza Editore-come molti ricorderanno entrato di diritto nella cinquina dei finalisti al Premio Strega del 2016- racconta la vita del più grande scultore italiano fra Otto e Novecento: Vincenzo Gemito. E lo fa mantenendosi in prodigioso equilibrio tra fedeltà al dato storico e radicale reinvenzione dello stesso.

È il romanzo di un’avventura eversiva e donchisciottesca, libro di vertiginosa solitudine e di teatrale coralità sullo sfondo di una Napoli vissuta come “un paese imprecisato che stava diventando la sua frontiera di malato”, a contatto coi protagonisti della cultura del tempo, da Salvatore Di Giacomo a Raffaele Viviani e agli altri. Wanda Marasco prende le mosse dalla fuga dell’artista dalla clinica psichiatrica in cui è ricoverato, e da lì ricostruisce la storia agitata di un “enne-enne”, un figlio di nessuno abbandonato sulla ruota dell’Annunziata, il grande brefotrofio del meridione.

Il marchio del reietto – beffardamente impresso nel suo stesso nome che è il risultato di un errore di trascrizione – lo accompagnerà per sempre, quasi come un segno di divinazione. Il suo apprendistato lo farà nei vicoli, al fianco di un altro futuro grande artista, il pittore Antonio Mancini, suo inseparabile amico che diventerà anche coscienza di Gemito, suo complice totale e infine suo nemico o, meglio: quell’intimo nemico di se stessi che si preferisce trasferire nell’altro. Vedremo così «Vicienzo» entrare nelle botteghe in cerca di maestri, avido di imparare.

Lo seguiremo a Parigi, tra stenti da bohème e sogni di celebrità, e lo ritroveremo a Napoli, artista ambito da mercanti e da re, e pur sempre incalzato da quel “genio dell’abbandono”, che, potente metafora dell’orfanità dell’arte, lo spinge a grandi imprese e lo precipita nel baratro dei fallimenti.

Vivremo il suo folle amore per la modella Mathilde Duffaud, che ne segna la vita come un sistema dell’erotismo e del dolore, un impasto di eccessi e delusioni che sfociano in una follia tutta “napoletana”: intelligenza alla berlina, incandescenza e passioni spesso arrese a un destino malato di cui il “vuoto” di Napoli voracemente si nutre. Scritto in una lingua vigorosa e raffinatissima che con movimento naturale vira verso il registro dialettale, Il genio dell’abbandono” è sostenuto, come ha scritto Cesare Segre, da uno slancio drammatico che conferisce ai personaggi “uno stacco e un dinamismo straordinari”. Portatore di un dolore immedicabile e insieme di una furia sconfinata, “Vicienzo” s’imporrà al lettore con la forza dei personaggi indimenticabili, “pazzo in latitudine e longitudine” e “col carattere di una putenta frèva”: la febbre del genio che combatte la sua battaglia solitaria con la storia e la società per affermare identità e passione.

La formazione di Gemito avvenne nei vicoli del centro storico di Napoli e dalle sculture del museo archeologico. La sua attività artistica lo portò ai Salons di Parigi, ma, anima tormentata, “… fu interrotta a causa di un’intima crisi intellettuale, per via della quale si segregò dal mondo per diciotto anni; riprese la vita pubblica solo nel 1909, per poi spegnersi venti anni dopo”.

La produzione artisitca di Gemito spazia da disegni e figure in terracotta fino alle sculture, soprattutto, che ritraggono scene e figure popolari napoletane. Tra le sue opere più famose la statua di Carlo V° sulla facciata del Palazzo Reale di Napoli, il Pescatorello, l’Acquaiolo, la Zingara e i ritratti.

Come tantissimi altri luoghi della cultura la cui attività è stata messa in stand by dalla pandemia di Covid-19 il Museo e il Real Bosco di Capodimonte a Napoli  ricorrono al web e ai social per comunicare progetti e iniziative forzatamente differiti, come l’invito a visitare on line la Mostra “Gemito. Dalla scultura al disegno”.

La “visita” a porte chiuse è introdotta da un testo in cui il direttore Sylvain Bellenger sottolinea il continuo gioco di scambi tra Napoli e Parigi (dove, al Petit Palais, si è da poco chiusa una mostra a sua cura incentrata sull’”anima napoletana» dell’artista”); il cocuratore Carmine Romano in un video di 15 minuti ci guida tra 100 delle circa 150 opere, tra disegni, dipinti e sculture, selezionate per l’esposizione, mentre il responsabile dell’allestimento, Roberto Cremascoli di COR arquitectos, spiega perché «non è possibile separare l’artista dalla sua città».

Le parole dell’architetto Roberto Cremascoli (COR arquitectos) sulla scelta del tipo di allestimento fanno capire che “… non è possibile separare l’artista dalla sua città … “ e l’introduzione del direttore Sylvain Bellenger traccia un fil rouge tra Napoli e Parigi.

Il cocuratore Jean-Loup Champion delinea un ritratto di Vincenzo Gemito (1852-1929) “eterno scugnizzo nell’animo”, mentre Maria Tamajo Contarini, terza curatrice della mostra, ci conduce tra le sue opere presenti nelle collezioni del Museo di Capodimonte.

Gemito, poco noto in Francia a Napoli assume le dimensioni di un mito, di una grande figura della leggenda, non nera e ossessiva come quella di Caravaggio, ma tenera, a cui i napoletani si sono affezionati. Un sentimento che nasce dall’ammirazione e dall’indulgenza verso il figliol prodigo, il ragazzo di strada. Gemito fu uno scugnizzo, il Gavroche dei francesi.

Gemito sculpteur de l’âme napolitaine” è stata la prima mostra dedicata a Gemito fuori dall’Italia dopo la morte dell’artista, il che può apparire sorprendente trattandosi di un uomo che aveva trovato la gloria proprio a Parigi, durante l’Esposizione universale del 1878, e che aveva stretto amicizia con i grandi artisti del tempo: Meissonnier ma anche Rodin.

Con la mostra al Petit Palais, Gemito non ha cambiato volto, ma la sua figura è cresciuta, incontrando un’altra leggenda.

La sua “nicchia” di scultore pittoresco e realista si è allargata, a beneficio non solo di una migliore comprensione della sua strategia artistica ma anche di una leggenda che, uscita dalle sue frontiere, ha spezzato il suo isolamento e ha assunto una forma più universale: quella dell’artista maledetto.

La miseria, la gloria e la follia, tutti gli ingredienti che la nostra modernità è solita associare all’arte, sono in effetti riuniti in Gemito, che è entrato così nell’universo dei Camille Claudel, dei Van Gogh, degli Antonin Artaud, dei folli devastati o, al contrario, elevati dalla loro follia.

Questa leggenda, a sua volta, non è certamente priva di conseguenze per il talento di un artista, ma ci ha permesso di rivalutare l’ultimo periodo della sua produzione, i suoi ultimi vent’anni di vita, in cui il disegno diventa scultura.

La mostra che si apre a Capodimonte, “Gemito dalla scultura al disegno”, ha l’ambizione di riassumere le rivelazioni di quella parigina, organizzandole però diversamente intorno ai suoi esordi, ai busti, alla gloria, agli amori (la francese Mathilde e la napoletana Anna), alla follia e alle ultime opere.

Addolorato dal lutto, ferito dalla demenza, Gemito realizzò nei suoi ultimi anni una serie di opere sorprendenti, un nuovo ritorno all’antico, ma come stranamente attraversato dalla modernità delle secessioni artistiche dell’inizio del XX° secolo, una sorta di manierismo che fa pensare a Vienna, a Monaco e che anticipa la rottura italiana della pittura metafisica e in particolare di Gino Severini.

 Come tutte le mostre dedicate a Gemito, passate e future, anche queste due insistono sul genio tecnico di Gemito, un genio che le repliche tardive dei suoi bronzi che invadono il mercato hanno cancellato, per non dire umiliato.

Vincenzo Gemito, Pastore degli Abruzzi, 1873 ca. Acquisizione post unitaria Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte
Vincenzo Gemito,mk 1911 Medaglione con testa di Medusa – Argento dorato – 23,5 cm – Inv. 86 SE.528 – Getty Museum
Vincenzo Gemito, Donna con scialle, 1921 Sorrento, Collezione Luciano e Arianna Russo

  

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