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Il buco: Homo homini lupus

L’operazione di Netflix, che proprio in questi giorni di quarantena distribuisce sulla sua piattaforma un film estremo sull’isolamento come Il buco, suona piuttosto furbesca (anche se l’acquisto è stato fatto in precedenza), ma è pur vero altresì che qualsiasi spunto di riflessione sulla natura dell’essere umano varrebbe la pena di coglierlo al volo, a maggior ragione in questa nostra attuale e inedita condizione esistenziale. Il successo che l’opera prima del regista spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia sta avendo tra gli spettatori lascerebbe credere, o quantomeno sperare, che in molti lo stiano già facendo.

Il buco. La trama

La storia è decisamente lineare. Siamo in una enorme struttura a moduli cubici sviluppata in verticale, chiamata dall’amministrazione “Centro Verticale di Autogestione” e dai suoi inquilini “La fossa”. Su ogni livello una stanza, in ogni stanza due persone, servizi igienici, due lettini e nessuna finestra, anche se i grandi neon alle pareti ne danno a volte l’illusione. Al centro di ogni stanza, una apertura quadrata da cui si può gettare un’occhiata sugli altri livelli confinanti, sopra e sotto: impossibile dire quanti sono, lo sguardo si perde in una apparente infinità.

Da questa apertura scende tutti i giorni una grande piattaforma colma di ogni pietanza (sono i piatti preferiti degli ospiti, dichiarati al momento dell’entrata) accuratamente preparata ed elegantemente impiattata da una brigata di chef che opera al piano 0. Da qui la piattaforma scende, fermandosi a ogni livello 2 minuti appena. Tutto quello che si più mangiare deve essere consumato in quei pochi frangenti, se uno dei due inquilini del livello prova a trattenere qualcosa, viene immediatamente rilasciata aria gelida o bollente in grado di uccidere entrambi in pochi istanti. 

Va da sé che gli ospiti dei livelli più alti sono i più fortunati, perché possono rimpinzarsi di ogni ben di dio. Non esitano a farlo, noncuranti degli abitanti dei livelli più bassi. Chi si trova nei piani intermedi riesce ancora a racimolare un po’ di cibo, per quelli più in basso non c’è speranza, a quei livelli arrivano solo frammenti di piatti e bicchieri vuoti e rotti, spesso conditi di sputi e urina. Lì, la lotta alla sopravvivenza precipita l’essere umano in una condizione primitiva: il più forte mangia il più debole, letteralmente. Ma lo status di privilegiato o di reietto dura solo un mese. Al termine dei trenta giorni, gli ospiti vengono addormentati e spostati a caso in un altro livello. Così, chi era nel livello 6 può ritrovarsi nel 180 e viceversa. I mesi trascorrono in questo modo, per chi riesce a sopravvivere.

Ma cos’è il Centro Verticale di Autogestione? Si direbbe una prigione, eppure c’è chi vi entra volontariamente, come Goreng (Ivan Massagué) che decide di sottoporsi a questa sorta di esperimento sociale per smettere di fumare. Ogni ospite può portare con sé nella fossa qualcosa dal mondo esterno, c’è chi porta un cane, chi una tavola da surf, chi un’arma, Goreng ha deciso di portare con sé un libro, Don Chisciotte della Mancia.

Al suo risveglio, nel livello 48, fa la conoscenza del suo coinquilino, Trimigasi (Zorion Eguileor), un vecchio inquietante ormai indifferente alle tante atrocità a cui si assiste nella fossa. Lui spiega a Goreng il funzionamento del sistema. Tra i due sembra nascere un buon rapporto di convivenza. Nonostante tutto, le cose non vanno tanto male al livello 48. Ma quando, alla scadenza del primo mese, i due si risvegliano al livello 171 le cose si complicano inevitabilmente. Comincia così la lotta alla sopravvivenza di Goreng nella fossa, mentre si fa mano a mano largo in lui l’idea di provare a rompere il sistema.

Il buco – Recensione

Il film di genere si rivela ancora una volta un ottimo modo per esordire alla regia perché permette, con un budget relativamente modesto, di mostrare al pubblico le proprie capacità. Questo è il caso di Galder Gaztelu-Urrutia con Il buco. Certo, la congiuntura con il particolare momento che stiamo vivendo ha fatto da volano al successo del film, che però aveva già ottenuto un certo plauso internazionale e vinto diversi premi, tra cui il Premio del pubblico al Festival di Toronto, il Premio della Scuola Holden al festival di Torino e il Premio Goya per gli effetti speciali.

La regia di Galder Gaztelu-Urrutia sa sfruttare molto bene lo spazio angusto e minimale, riuscendo a moltiplicare l’unica location decine di volte dandoci l’illusione di muoverci veramente tra i livelli. La fotografia scandisce il passaggio dal grigio asettico e alienato del giorno al rosso della notte che accompagna e sottolinea anche gli stati di allucinazione di Goreng. Uno dei punti forti del film è sicuramente la sceneggiatura di David Desola e Pedro Rivero che sono riusciti a raccontare la parabola di un uomo comune, uno con la camicia a maniche corte che voleva solo smettere di fumare e leggere il suo libro in santa pace, e che si ritrova invece precipitato in un inferno dantesco.

Ivan Massagué in una scena del film

L’atmosfera cupa e pessimistica ricorda molto da vicino Cube del 1997 e c’è chi lo ha accostato, con i dovuti distinguo, a Buñuel, soprattutto per il lato grottesco con cui vengono ritratti alcuni personaggi, ma gli manca la raffinatezza e la sottigliezza del maestro spagnolo.  Il buco non è un capolavoro, né una esperienza estetica inedita, ma è un ottimo film di genere oltre che un esordio sorprendente.

Il buco: prospettive di lettura

Sono fin troppo evidenti gli intenti metaforici de Il buco e alcuni critici hanno accusato il film di eccessivo didascalismo. La struttura verticale della fossa, in cui i privilegiati stanno sopra e i reietti sotto, è già una palese metafora della società gerarchizzata in cui viviamo. Si può inoltre rintracciare nella casualità con cui si viene spostati da un livello all’altro una metafora della mobilità sociale, una sorta di memento della rapidità con cui la nostra condizione è soggetta ai cambiamenti, sottoposti come siamo nel corso della nostra vita alle alterne fortune. Oggi sei ricco ma domani potresti ritrovarti in disgrazia, o viceversa.

Ma facciamo uno sforzo e proviamo ad andare oltre questa prima lettura, perché Il buco offre invece, intenzionalmente oppure no poco importa, molti spunti di riflessione che in questo momento appare interessante indagare, sul comportamento dell’uomo in una condizione estrema. Va da sé, la nostra condizione di isolamento attuale non è neanche lontanamente paragonabile a quella descritta nel film, ma certe immagini delle liti nei supermercati per accaparrarsi l’ultimo pacco di carta igienica incoraggiano una piccola avventura di indagine per iperboli.

Il buco non è certo un racconto edificante sul genere umano. Nel film gli uomini sono ridotti a corpi putrefatti, impiccati, squartati, affettati e mangiati. C’è sangue, feci, saliva e urina e tutta l’arte culinaria espressa dagli chef al livello 0, offerta sulla piattaforma in un’elegante composizione, non fa che amplificare il senso di nausea permanente che accompagna la visione del film. Nausea soprattutto l’orrendo spettacolo che il genere umano dà di se stesso. Non sembra esserci speranza, gli uomini sono imbarbariti, incattiviti, pronti a sbranarsi l’un l’altro, che occupino i livelli superiori o quelli inferiori non fa differenza.

Quelli che hanno pietanze a volontà deridono i meno fortunati, calpestano e sputano sul cibo solo per il gusto di insozzarlo e renderlo immangiabile per gli altri. Ma il meccanismo di rotazione della fossa porta a chiedersi se il comportamento gratuitamente malvagio di quelli che si trovano ai piani alti non sia dovuto alla loro precedente esperienza nei piani bassi. Hanno subito la fame, gli oltraggi e la violenza dei propri simili e sono decisi a ripagarli con la stessa moneta appena gli si presenta la possibilità, in un circuito vizioso di soprusi e malvagità? Oppure, e qui si apre una questione filosofica vecchia di secoli, sono cattivi perché è semplicemente questa la vera natura dell’essere umano? Homo homini lupus.

Da questo punto in poi è consigliata la lettura a chi ha già visto il film, rischio (o meglio, certezza) spoiler.

Sappiamo che Goreng è l’unico ad aver portato con sé un libro ed è anche colui che tenta di cambiare il sistema. Quelli che hanno portato le armi sono tutti morti. Ma il protagonista del suo libro, Don Chisciotte, era pazzo, e allora forse il film suggerisce che solo i pazzi provano a cambiare il sistema. I pazzi e quelli che non hanno più niente da perdere, come la funzionaria Imoguiri, che decide di entrare nella fossa dopo aver scoperto di avere un cancro terminale. Lei cerca di convincere gli altri ospiti a razionare il cibo, così che anche chi sta nei livelli più bassi possa avere qualcosa da mangiare. Il suo tentativo di solidarietà spontanea però fallisce perché gli uomini, questo suggerisce Il buco, non sono portati a fare del bene se non sotto minaccia. E di converso, quindi, non fanno del male solo per paura delle punizioni. Se togliessimo le punizioni e rendessimo i crimini legali (come nella fossa) gli uomini si ucciderebbero tra di loro?

La fame ti cambia, dice Trimigasi a Goreng, eppure anche in una condizione estrema l’uomo conserva la possibilità di ribadire la propria umanità, questa risiede nelle facoltà di scegliere. Scegliere di morire, per esempio, pur di non uccidere. È quello che fa Imoguiri, che decide di impiccarsi e di offrirsi come banchetto al suo coinquilino quando scopre di essersi svegliata al livello 202.  In una condizione inumana l’essere umano non ha che da aggrapparsi alla scelta per rimanere tale.

Quando Goreng e il suo ultimo compagno di stanza Baharat decidono di scendere tra i livelli sopra la piattaforma e di razionare il cibo in modo che anche gli ultimi riescano a mangiare, si accorgono che i livelli sono molti più di quelli che immaginavano. Neppure la funzionaria Imoguiri che ha lavorato nel sistema per venticinque anni era a conoscenza del numero effettivo dei livelli. E qui emerge un’ulteriore critica a un sistema pachidermico, creato dagli uomini ma non più a misura d’uomo, le cui dimensioni e il cui completo funzionamento nessuno conosce fino in fondo.

Per far rispettare il razionamento del cibo durante la lunga discesa nei livelli, Goreng e Baharat non esitano a massacrare chiunque cerchi di avvicinarsi alla piattaforma. Un vecchio saggio li esorta al dialogo ma a cosa serve dialogare con delle bestie affamate? Bisogna usare la forza per far rispettare le regole e, nel farlo, anche “il buono” uccide. Uccide i pochi per il bene dei molti, è vero. Ma uccide. Forse il suo omicidio è meno grave degli altri solo perché è giusta la causa in nome della quale viene compiuto? “Il fine giustifica i mezzi” ma questo non salva il principe dal giudizio che ne conseguirà. Per questo Goreng e Baharat devono morire e moriranno.

Quando i due raggiungono l’ultimo livello, il 333, il cibo è finito da un pezzo, nonostante non abbiano dato niente da mangiare agli inquilini dei primi cinquanta livelli, e si intravedono ancora dei cadaveri sui piani. Quindi non è vero che in teoria, se ognuno mangiasse solo la propria parte, ci sarebbe cibo per tutti, come sembrerebbe suggerire una prima lettura. La verità è che il sistema ti affama e vuole che tu faccia la guerra ai tuoi simili, vuole che vi scanniate, che vi mangiate a vicenda. Solo così mantiene il controllo. Per questo conservare la panna cotta e rimandarla intatta al piano 0 significava rompere il sistema.

Il buco poteva anche finire qui, ma gli sceneggiatori decidono per un colpo di scena: la figlia di Miharu, la pazza che attraversa continuamente i livelli uccidendo tutti i suoi compagni di stanza con la speranza un giorno di capitare insieme alla piccola perduta nella fossa, esiste davvero e si nasconde al livello 333. Goreng e Baharat decidono di sacrificare la panna cotta per sfamare la piccola. La bambina diventa così essa stessa il messaggio e viene spedita al livello 0. Questa è almeno la lettura più ovvia, infiocchettata di speranza, in un finale fin troppo ottimista. Non si capisce, però, come abbia fatto a sopravvivere laggiù dove le probabilità di ricevere cibo sono ridotte a zero.

E allora, forse, la “giusta” interpretazione di questo finale, quella forse meno banale, quella che non lascia alcuna speranza e appare più coerente con l’atmosfera distopica e nichilista di Il buco, è che Miharu sia impazzita davvero nella fossa, come affermava la funzionaria Imoguiri, e che non esista in realtà nessuna bambina e che essa sia soltanto il simbolo dell’innocenza perduta di tutto il genere umano e dello stesso Goreng, il quale, una volta arrivato all’ultimo piano, non potendo più resistere ha in realtà mangiato la panna cotta per poi decidere di lasciarsi morire. Perché non c’è causa che tenga di fronte agli istinti primari. Perché l’uomo fallisce e il sistema vince. È ovvio.

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