Gianni Mazzei è filosofo, scrittore e poeta, ci offre una chiave di lettura di INVENTARSI NUOVI di Lorena Fiorini (Terra d’ulivi edizioni 2020), disponibile su www.edizioniterradulivi.it/inventarsi-nuovi/229.
Si presta a più letture questo bel romanzo della Fiorini. La più immediata è quella psicanalitica. Una donna, Lorenza, quarantaduenne, bella, elegante, affermata, in crisi con il suo nuovo compagno, Marco (dopo il naufragio del suo matrimonio con Enrico), si psicanalizza (è laureata in psicologia) e va in analisi dalla dottoressa Conti (all’inizio convince anche il suo compagno ad andarci) per vedere cosa non va più in un rapporto che prima, totalizzante, era esplosione di gioia, energia, intimità di corpo e di anima e ora è solo sofferenza, disordine, incoerenza inquietudine, mancanza di un centro e di una progettualità (pag. 49).
Altri aspetti che hanno a che fare con la psicanalisi sono il significato di viaggio (riflettere in sé è un viaggio continuo, che ha regole quasi di esercizi spirituali, come santo Ignazio di Loyola, che insisteva nel dire di fare ogni sera analisi del giorno trascorso per vedere in cosa si era venuti meno circa quanto programmato nella sera precedente). La stessa differenza, ricordata da Lorenza, riguardante il fiume che scorre o l’immensità del mare, rispetto alla ristrettezza del lago che, essendo chiuso, non rivela dinamismo e cambiamento, è in sintonia con questa lettura (pag. 35).
La figura anche del giardiniere, Giuliano, che pur non centrale, ha una parte notevole nel romanzo, può essere vista in quest’interpretazione psicanalitica: egli, gay, sublimizza prima nel bello (i fiori) e nei gesti gentili, di cura, senza invadenza verso Lorenza, la sua sessualità che poi, nel risolversi della crisi della protagonista, trova una propria chiarificazione.
Così anche vedere la scrittura come un altro modo di vivere, più genuino, vedere nella scrittura un superamento della vita stessa, perché te ne crea altre mille, se da una parte può richiamare Aristotele (presente senza nominarlo nella battuta famosa “buttare il bambino insieme all’acqua” pag. 53), nel concetto di catarsi, dall’altra si aggancia (e nel romanzo se ne fa esplicito richiamo), alla psicanalisi, all’impiego della scrittura come svelamento, raccontarsi, nei sogni e poi spiegarli.
Altra modalità interpretativa è quella psicologico- sociologica, in quei meccanismi irrisolti di rapporto tra sesso e amore, nell’implicanza del sesso come potere, che portano ad avere atteggiamenti passivi, accettati, creando in questa scia di errori, altri errori, di generazione in generazione, dal nonno, donnaiolo, al marito della protagonista, al suo nuovo compagno, e, di rimando, accettazione, sofferenza, dalla nonna, a Lorenza e ad altre presenze femminili del romanzo.
Èquasi un fare entrare, ma senza spirito polemico e ideologico, come avviene in altre scrittrici, tipo Simone de Beavoir “donna non si nasce, si diventa”, il femminismo.
In realtà, nel romanzo della Fiorini, è un femminismo sui generis se alla fine conclude che vittima di questa divisione, di questo contrasto e lotta tra i ruoli, non è solo la donna, ma forse anche l’uomo. (pag. 107)
Come appendice di questa attenzione ai ruoli contrastanti tra maschio e femmina, in questa scissione tra corpo e anima e alla funzione di “potere” (visto ambivalentemente come attrazione e possesso), potrebbe entrarci, senza alcuna forzatura, anche una nota di politica attuale, riguardante l’Europa, che come la protagonista se perde “le profonde radici…e non cura la memoria” diventa zona devastata, senza dialogo e senza costruire pace e unità (pag. 103).
Il fatto di essere, questo romanzo, godibilissimo, di grande chiarezza e avvincente, non sta a significare che sia semplice come impianto argomentativo e poco profondo, giacché come dice Hofmannshal “la verità va nascosta. Dove? In superficie”.
E le diverse interpretazioni che si possono cogliere di questo incantevole romanzo, lo dimostrano.
Comunque, fermarsi, solo a queste osservazioni, già valide per dire della sapienza compositiva e ricchezza dell’opera della Fiorini, sarebbe cosa non definitiva, monca; sarebbe aver descritto di una bella casa, le finestre, fiorite, i balconi, l’ampia veranda, il giardino, aver visto la divisione interna, il salotto, la cucina, la camera da letto, i mobili, i libri e non aver parlato però della posizione, dell’ubicazione della casa, in rapporto anche all’ambiente e alla città in cui è situata e alla sua storia; e, infine, e maggiormente, di non aver parlato delle fondamenta, della solidità della costruzione.
Giacché si parla di amore e quindi si parla di come si vive.
È un discorso esistenziale, filosofico (l’ontico della protagonista è sempre nell’orizzonte dell’ontologico, dell’assoluto), per dire tutta la bellezza, tutta la sofferenza, i mancamenti, la fragilità, la conquista, ma anche i rimandi all’altrove, l’assoluto invocato che non è solo perfetta intimità di carne e mente (pag. 82) di questa esperienza, unica, che abbiamo, la vita.
E, pur dando regole per uscire dall’impasse, Lorenza sa e noi con lei (è anche un romanzo pedagogico e di formazione, questo della Fiorini), che niente è definitivo, niente è idoneo e valevole universalmente come salvezza; sa che gli errori, fertili se sappiamo sfruttarli, del vivere e dell’amare hanno la stessa funzionalità dei punti fermi, delle verità e delle conquiste.
Anzi, sono la vera conquista, perché nostra, fatta sulla nostra pelle, in quella visione democratica e di dialogo, alla pari che è l’amore, che, grammaticalmente dà spazio uguale, senza prevaricazione ad un tu e ad un io, per diventare, in piena libertà e intimità, un noi.
Se dobbiamo dare delle coordinate, dovremmo attenerci, nel vivere e nell’amare a
“Primum vivere deinde filosophari” per giungere, ad ogni nucleo, sempre superabile all’“equilibrio instabile” di cui parla Piaget: instabile, perché dinamico, mobile, che si amplia, che non si ferma o si fissa in niente di definitivo, perché bloccherebbe crescita e vita.
Ma nel centro, in questo flusso magmatico che ci sconvolge che ci vive e viviamo, c’è naturalmente un autore, meglio l’autore per eccellenza, che ci fa da guida e interprete, colui che, come è stato affermato, ha detto tutto e gli altri non sono altro che dettagli e glossa.
Naturalmente, Platone (a cui la protagonista fa cenno nella discussione se si è per l’altro l’intera mela o la metà, secondo l’interpretazione di eros che nel Simposio il filosofo fa dire ad Aristofane, pag. 107):
Il mito cardine della filosofia platonica (e di tutto il mondo occidentale) è il mito di Eros.
In esso confluisce l’intera esperienza umana, quelle tre divine manie, per Platone essenziali, l’eros appunto, il pensiero e l’arte, intimamente unite. Come confluisce, poi transitate esse nel cristianesimo connesse alla ricerca della bellezza, quell’intrinsecità che lega l’uno al buono, al bello, al vero, in un rimando continuo tra terra e cielo, tra contingenza e eternità, tra sesso e amore, in infinito trascendersi fino al senso dell’oltre e dell’altrove.
Eros è mancanza e desiderio di bellezza, teso sempre a trovarla e a tendere tranelli per raggiungerla; eros non è appagamento, tanto meno quiete, è solo tensione, di superamento, di crescita.
L’autrice di questo prezioso romanzo non fa che adattare alla nostra mentalità e alla nostra sensibilità e conoscenza questo mito, allorché parla di creatività e unicità.
Ma non è l’io tetragono, al centro di tutto, è un io sfuggente, in cui coesistono tanti io, tante possibilità, fughe e ritorni; a noi farli coesistere non nella guerra e distruzione, ma nella crescita.
Una postilla verrebbe da aggiungere in questo particolare momento che viviamo politicamente: l’Europa non è unica, sono diverse anime che devono coesistere, e non si è da tempo centro, ma si è apertura, ponte di civiltà come lo è stato il Mediterraneo e come, in misura diversa, deve esserlo ancora, in quel richiamo che è l’impronta dell’Europa, il suo kairos, il richiamo alla bellezza e al trascendersi.
Così anche l’autrice aggiorna, in un linguaggio piano e di grande vivacità e chiarezza, ciò che significa crisi e come se ne esce.
Si parte dal prendere consapevolezza di accettarsi, di non considerarsi onnipotenti, di utilizzare fragilità, errori e scarti per costruire. Eros è un modello, un tendere non una fissità. Tendere non è raggiungere. Platone è chiaro in questo.
Per cui, insistere nella perfezione da raggiungere, il tutto o niente, senza gli opportuni e realistici aggiustamenti è come voler costruire una casa con pietre rotonde (solo perché il cerchio significa perfezione) e essa inevitabilmente rovina, come ci dice Galilei, con fine ironia, nel “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”.
Si costruisce con ciò che si ha.
“Inventarsi nuovi” è vedere con occhi diversi e ritrovare nei pezzi inerti, nei rottami gli elementi i utili per ricominciare.
Così è anche della scrittura che non è la vita (la parola che diventa ali di farfalle trafitte, senza più voli, come ci indica Goethe). È meno della vita per certi aspetti, ma, per altri, paradossalmente, è più che vita, se si sa mantenere la giusta distanza tra la nostra ispirazione, tra la “finzione” (intesa come creazione) e le nostre sofferenze, il nostro concreto vissuto.
Essa allora diventa lievito, diventa superarsi, un vivere mille vite e diventa la freccia che supera il tempo, lo trafigge, per giungere all’eternità (questo romanzo, tra l’altro, ha anche una sua estetica, con questa visione dell’arte e della scrittura).
La Fiorini ha scritto un romanzo che prende e fa riflettere.
La sua scrittura si distende e noi con essa come in un salotto, in un pomeriggio, ombrato e noi a parlare di noi stessi, nel gioco dello sdoppiamento, ora in prima persona ora in terza persona o con l’intervento di altri protagonisti, compresi gli stessi oggetti (il capitello in salotto, il giardino), per una conversazione, pacata, a volte non subito risolta nei nodi che abbiamo, con un linguaggio medio, appropriato, quasi partiture di una sinfonia o di una pièce teatrale, molto familiare, ammiccante.
C’è della Duras in Fiorini, in quel “moderato cantabile” che si presenta e vibra nella parola e in noi.
Alla fine ciò che prima era disagio, ostacolo, diventa risoluzione; il lago e il suo rifugiarsi per scrivere (pag. 100), che porta la protagonista anche a cambiare nel vestire: più sportiva, più allegra, più colore, come quello dell’autunno, quel rosso ocra in un’aria limpida e trasparente.
E salva il suo e l’avvenire della figlia Chiara con Paolo, senza ossessionarla, a dare consigli intesi come prolungamento di sé e di ciò che avrebbe dovuto essere e non è stato.
L’amore, che non sia misura con il rispetto dell’altrui libertà, può uccidere.
Lo faceva intendere un certo Fichte!
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