La Festa della Liberazione va pensata in termini di vite umane.
“A che cosa serve combattere? Un giorno guadagnano terreno, il giorno dopo devono indietreggiare. E intanto centinaia di ragazzi vengono massacrati”
La frase riprende le fila di Eredità, il primo dei due libri scritto da Lilli Gruber, che racconta la storia di Rosa e poi di Hella, vissute a cavallo tra Impero e Fascismo. Ovvero in quel mostro di guerra che ha accartocciato l’Europa e fatto pesare colpe a tutti quei popoli, nazioni e singoli cittadini che appoggiarono l’avanzata Hitleriana. Pur credendo allora di avallare una causa giusta.
Ma quando ci sono di mezzo vite, uno sterminio razziale, la cancellazione dei diritti umani, per quanto si possa cercare di comprendere le motivazioni, legate a linguaggi diversi, non si riesce a perdonare quelle mani, quel potere.
Siamo in Sudtirolo. In quella parte di stato annesso all’Italia in cui Mussolini tentò di introdurre la lingua italiana e tutte le altre tradizioni della penisola, a discapito del tedesco e dell’appartenenza. Privando così di ogni identità i suoi abitanti.
E siamo in quel frangente di storia in cui Hitler finse di schierarsi a favore del Sudtirolo, promettendo il suo intervento contro Mussolini, peraltro già suo alleato, e introducendo le famose Opzioni. In quel caso erano loro in attesa di una Festa della Liberazione.
La Gruber, da grande giornalista quale è, disciplina la storia rendendola fluida, ce la racconta con garbo, con diplomazia. Non si subodora mai la sua opinione personale, pur tracciando, gli aloni della sua famiglia e quel crescere esponenziale del ruolo delle donne nella società.
È nel secondo libro, Tempesta, che la Liberazione dalla Dittatura fa il suo ingresso, rompendo gli argini, riconquistando ciò che è rimasto in piedi. Anche se, in queste pagine, per la protagonista Hella -sostenitrice del Reich e delle Opzioni- è difficile riprendersi la propria vita e liberarsi dal peso delle sue stesse gesta.
Per lei, che aveva creduto nella guerra come traino per la conservazione delle sue origini, è un risveglio amaro. Lì, nel mezzo, come una lama nel petto c’è conficcato l’Olocausto, questo crimine di cui si sente complice senza aver mai compreso di esserne stata parte.
I partigiani segnarono il passo. La guerra si dissipò ma, dietro, si poteva sentire l’odore delle bombe esplose, il sapore amaro di tante vite sprecate, di tanti corpi gettati in fosse comuni come carcasse.
Si deve partire dalla Seconda Guerra Mondiale per ricordare con il giusto valore il Giorno della Liberazione e deporre con coscienza la corona al Monumento dei Caduti.
Nulla di quanto avvenne in quei tre anni di barbare esecuzioni e crudele smania di potere, può essere cancellato e, nessuno dei perseguitati, può essere restituito alle famiglie orfane, alle comunità derubate.
Eppure, il gesto in sé, di rendere merito a quegli uomini e donne coraggiosi che si frapposero alla tirannia, resta, l’unico modo che abbiamo, di ringraziarli, di bestemmiare il fascismo e consegnare ai bambini un’eredità più leggera. Una Festa della Liberazione di cui essere i prosecutori.
Perché come scrive Lilly Gruber “La gioia condivisa è gioia doppia, il dolore condiviso è mezzo dolore”.
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