Le immagini della foresta amazzonica in fiamme hanno fatto il giro del mondo. Il fumo emesso dalle migliaia di incendi che hanno devastato il polmone della terra era visibile a centinaia di chilometri. Dalla Stazione Spaziale Internazionale, il nostro Luca Parmitano il 26 agosto ne ha pubblicato una fotografia impressionante in un post su Twitter. L’hashtag utilizzato dall’astronauta italiano è stato #noplanetB. Non abbiamo un pianeta di riserva su cui rifugiarci, abbiamo solo questo: un pianeta splendido abitato da una specie scellerata e straordinaria, l’umanità. Se c’è qualcuno che è stato in grado negli ultimi quaranta anni di testimoniare la bellezza della Terra e l’incredibile vicenda umana, quello è senza dubbio Sebastião Salgado.
Le sue fotografie in bianco e nero raccontano, con impressionante forza visiva, una storia fatta di bellezza, di miseria, di lotta e di orgoglio, di gioia e disperazione. Una storia, quella del genere umano che nel lavoro di Salgado emerge in tutta la sua dimensione tragica. Vittima e carnefice di se stesso, in costante lotta per la sopravvivenza, capace di indicibili atrocità come di sacrifici eroici, l’uomo è in cerca di una catarsi e potrà raggiungerla solo se riuscirà a ristabilire un equo rapporto con il pianeta che lo ospita.
È forse questa una possibilità di narrazione se si guarda all’intero lavoro di Sebastião Salgado, che sembra riflettere in qualche modo la sua parabola umana.
Figlio di contadini, cresciuto in una fazenda nello Stato del Minas Gerais, est del Brasile, si avvia inizialmente a una carriera da economista. Alla fotografia approda tardi, intorno ai trent’anni. A folgorarlo è l’Africa, dove si reca più volte per conto dell’Organizzazione Internazionale del Caffè per cui lavora. Un continente cui rimarrà sempre legato, documentandone le sofferenze quotidiane come le grandi tragedie.
Nel 1973 decide di fare della fotografia la sua professione. Entra nell’agenzia Sygma, poi nella Gamma, infine, nel 1979, approda alla prestigiosa Magnum, quella di Robert Capa e Henri Cartier-Bresson. Se ne andrà solo nel 1994 per fondare, insieme alla inseparabile moglie e curatrice Lélia, la Amazonas Images.
La sua formazione da economista gli permette di indagare a fondo le ragioni degli squilibri economici e dell’impoverimento di certe aree del pianeta. Il suo è uno sguardo consapevole, di chi conosce i meccanismi del mercato e le leggi che governano il mondo. Per lui la fotografia diventa uno strumento per documentare le ingiustizie sociali, senza retorica, senza sentimentalismi, ma con una profonda empatia che lo lega ai soggetti che ritrae.
Nel corso dei suoi quasi cinquanta anni di carriera da fotografo, Sebastião Salgado ha documentato la vita, la fame, il lavoro, la sofferenza e la morte degli uomini. Nei suoi reportage, da Other Americas del 1977, fino a Exodus del 1993, c’è la storia dell’umanità.
Le sue fotografie non sono solo documento, testimonianza o denuncia di una situazione, nonostante vi sia riconoscibile la matrice sociale da cui prendono forma, sono uno sguardo sulla natura ontologica dell’essere umano.
In Sahel: The End of the Road del 1984, il reportage sulla siccità nel territorio del Sahel, nell’Africa sub-sahariana, Salgado ci racconta la siccità nel Sahel, ma ci regala la visione della condizione umana. Una condizione che è prima della storia, prima della civiltà.
Una madre tiene per mano due bambini nudi mentre attraversano il deserto. Un padre prepara il corpo del figlioletto per la sepoltura. Un ragazzino sfida l’orizzonte arso accanto a un cane scheletrito. Una intera famiglia si ripara dal vento che sferza i margini del deserto. Uomini, donne, bambini, di una magrezza che è quasi morte, a cui l’obiettivo del fotografo riconosce una dignità che già hanno.
I ritratti che ne fa Salgado non intendono suscitare pietà ma riconoscerne l’esistenza. Queste persone esistono. Esse sono. O per meglio dire, seguendo il noema di Roland Barthes, sono state, perché una fotografia cattura la contingenza, un momento che non c’è più, qualcosa che è stato. Un tempo passato che, se non fosse per il fatto stesso che si tratta del prodotto di una tecnologia moderna, si potrebbe far risalire indietro fino all’origine stessa dell’uomo. Fotografie che mostrano l’arcaica condizione dell’esistenza umana nella terra che ne fu la culla.
Quella che ritrae Sebastião Salgado è una umanità messa a nudo e allo stesso tempo avvolta in un alone di misticismo, di sacralità.
Le foto della Serra Pelada, la miniera d’oro in Brasile, che fanno parte del reportage Workers del 1986 (Le mani dell’uomo, pubblicato in Italia da Contrasto), hanno la potenza ancestrale di un racconto biblico. In un buco polveroso, migliaia di anime dannate si autocondannano alla schiavitù per il solo desiderio di arricchirsi. Uomini liberi eppure schiavi di una forza primordiale che li spinge a rischiare la morte per un chilo d’oro.
Qui sembra davvero passarci davanti l’intera vicenda umana. È lo stesso Salgado a raccontare, nel bellissimo documentario Il sale della terra diretto da Wim Wenders e da Juliano Ribeiro Salgado (il figlio di Sebastião), la sensazione che ha provato nel momento in cui si è affacciato sul ciglio della miniera: “Mi si è mostrata davanti, in poche frazioni di secondo, la storia dell’umanità, la storia della costruzione delle piramidi, la torre di Babele, le miniere di re Salomone”.
Il Salgado umanista che omaggia in Workers il lavoro e lo spirito indefesso dell’uomo è lo stesso che, con infaticabile tenacia, due anni dopo, si avventura in un nuovo lungo progetto sulle migrazioni, dal quale tornerà cambiato per sempre.
Exodus (In cammino, pubblicato in Italia da Contrasto) è forse il lavoro più crudo di Salgado, il più severo. Dal Ruanda al Congo alla “civilissima” Europa, Exodus racconta di uomini e donne in fuga dalla ferocia predatoria di altri uomini. E lo fa senza risparmiarci nulla.
Nel bel saggio Sulla fotografia Susan Sontag scrive “Le fotografie possono angosciare e di fatto angosciano. Ma tale è la tendenza estetizzante della fotografia che il medium che trasmette l’angoscia finisce anche per neutralizzarla. Le macchine fotografiche miniaturizzano l’esperienza, trasformano la storia in spettacolo”.
In Exodus, nelle fotografie dei mucchi di cadaveri, vittime del genocidio in Ruanda, il chiaroscuro è meno accentuato, prevalgono i grigi, come se Salgado, consapevole della “tendenza estetizzante della fotografia”, avesse voluto evitare di spettacolarizzare la visione per non attenuarne il senso di angoscia.
È vero che i nostri sguardi sono abituati alla sofferenza (dopo le foto dei campi di concentramento nazisti cos’altro può davvero procurarci uno shock?), che siamo assuefatti ormai alla vista di ogni orrore, ma provate a mangiare un gelato mentre guardate queste foto. Non ci riuscite. Non si può. Perché guardando queste foto noi proviamo qualcosa. Quel qualcosa si chiama empatia ed è ciò a cui dobbiamo aggrapparci per restare umani.
Exodus è l’ultimo reportage di Sebastião Salgado che pone l’uomo al centro del suo universo fotografico.
Da quella esperienza riemerge a fatica, malato nell’anima. I suoi occhi avevano visto troppo, erano stati testimoni delle atrocità che gli uomini sono in grado di infliggere ai propri simili. Avevano attraversato l’inferno.
Salgado aveva bisogno di ritrovare se stesso. Ci riesce facendo ritorno alla sua terra, il Brasile.
Quando Sebastião Salgado torna in Brasile con la sua famiglia, nella fazenda in cui era cresciuto, trova un paesaggio che, in qualche modo, è una metafora della sua condizione. Un paesaggio arido, senza alberi, senza animali, senza vita. La rigogliosa foresta atlantica in cui era cresciuto non c’era più.
Il suo ritorno alla terra è sia fisico che artistico. Con l’infaticabile moglie Lélia fonda l’Instituto Terra con l’idea di far rivivere la foresta atlantica e ripristinare l’ecosistema. Insieme piantano due milioni di alberi che piano piano attecchiscono. Nel frattempo progettano un nuovo reportage.
Genesis rappresenta una svolta decisiva nel lavoro fotografico di Salgado, da fotografo di uomini a fotografo di paesaggi. Il lavoro segna anche il suo passaggio dalla pellicola al digitale.
Con questo reportage è finalmente possibile parlare della bellezza delle sue fotografie. Davanti alla foto di un bambino africano che muore di fame, nonostante la composizione e l’uso della luce siano magistrali, non ha senso parlare di bellezza. Ha senso parlarne di fronte a una famiglia di pinguini che si getta nell’Oceano antartico, o alla coda di una balena che si solleva sull’acqua, o ancora al cospetto di una veneranda tartaruga gigante delle Galapagos.
Con Genesis Salgado ci riporta alle origini del creato e lo fa con un bianco e nero che non è mai stato così potente. Ci offre la visione di un mondo ancora incontaminato esortandoci a preservarlo, perché non diventi come le foto di Atget della vecchia Parigi che la rivoluzione urbanistica di Haussmann avrebbe distrutto per sempre.
Ma per proteggere il nostro pianeta dobbiamo cambiare le nostre politiche. Proprio in questi giorni sulle pagine di Robinson, l’inserto culturale di Repubblica, in un’intervista a firma di Anais Ginori, parlando degli incendi in Amazzonia Salgado non esita a puntare il dito sulle politiche di disboscamento già attive da anni nel territorio, che vengono ulteriormente incentivate dall’attuale presidente brasiliano Bolsonaro. Ci dice che quello che è successo era previsto, rientra in un piano di distruzione della foresta per fare spazio alle fattorie.
Le fotografie del suo nuovo progetto, incentrato proprio sull’Amazzonia, saranno proiettate il 22 settembre sulla facciata della basilica superiore di Assisi in occasione delle giornate del “Cortile di san Francesco”. E questo è solo l’inizio del nuovo viaggio di Sebastião Salgado nuovamente impegnato a raccontare una storia che ci riguarda tutti e che tutti possiamo vedere, perché attraverso una fotografia diventa più reale del reale.
La Sontag scrive “fotografare è essenzialmente un atto di non intervento” ma il lavoro e la vita di Sebastião Salgado sembrano sovvertire questa visione. Salgado è intervenuto, ha agito. Ha ridato vita alla sua foresta e ci sta aiutando ad aprire gli occhi sulla commovente bellezza del pianeta in cui abitiamo. L’unico pianeta che abbiamo.
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