XIII Emendamento (13th) è un documentario diretto da Ava DuVernay uscito nel 2016 e ora disponibile sia su Netflix che Youtube, candidato nel 2017 all’Oscar come Miglior Documentario. Vale la pena recuperarlo in questi giorni di rabbia e protesta scatenati dall’uccisione dell’afroamericano George Floyd da parte di un poliziotto bianco a Minneapolis, perché indaga in modo lucido e senza particolare enfasi la questione razziale in America, dalla schiavitù ai nostri giorni. Seguendo il discorso ben tessuto dalla regista di Selma, in una forma piuttosto convenzionale ma efficace che alterna interviste a materiali di repertorio, emerge la realtà di un razzismo profondamente radicato nella società americana e saldamente legato agli interessi economici di chi detiene il potere. Una piaga che si trascina da secoli, che si è evoluta e corre lungo tutta la storia americana intrecciandosi a essa in una trama inestricabile, tanto che è impossibile indagare la storia degli Stati Uniti ignorando il rapporto tra bianchi e neri. Esso è fondativo della nazione.
Il XIII emendamento da cui il documentario prende il titolo è quello della Costituzione degli Stati Uniti d’America che nel 1865 sancisce definitivamente l’abolizione della schiavitù ma che pure nasconde, in una frase apparentemente insignificante, un tranello che terrà sotto scacco la popolazione afroamericana ancora per molti anni a venire. Esso recita: “Neither slavery nor involuntary servitude, except as a punishment for crime whereof the party shall have been duly convicted, shall exist within the United States, or any place subject to their jurisdiction”. Ovvero la schiavitù è abolita, tranne nei casi in cui essa rappresenti la punizione per un reato commesso.
In seguito all’adozione dell’emendamento, molti afroamericani furono arrestati per crimini minori e condannati ai lavori forzati. La loro era una manodopera indispensabile per ricostruire un paese devastato dalla guerra civile e se non li si poteva avere come schiavi, allora bisognava trovare un altro modo per sfruttare il loro lavoro. Fatta la legge, trovato l’inganno. Quindi, proprio nel momento in cui il paese riconosceva finalmente lo status di uomini liberi a tutti gli afroamericani, lì ebbe inizio un processo di criminalizzazione nei loro confronti che, senza soluzioni di continuità e passando attraverso l’adozione di diversi strumenti giuridici, arriva dritto fino a oggi.
La retorica del criminale nero assassino e stupratore di donne bianche, a cui molto contribuì il grande successo di Nascita di una Nazione di D. W. Griffith del 1915, servì al potere bianco per sfruttare la forza lavoro dei neri impunemente segnandoli con un marchio d’infamia che si radicò nella mente dell’opinione pubblica e che sembra tuttora difficile da estirpare. In quegli anni furono migliaia i neri vittime di linciaggio per mano di “rispettabilissimi” americani bianchi.
Le cosiddette leggi Jim Crow giunsero a, in qualche modo, legalizzare lo stato di caos e violenze che imperversava soprattutto al sud sancendo la segregazione dei neri e affermando di fatto il loro status di cittadini di serie b. Bisognerà aspettare il Civil Rights Act voluto da Kennedy e firmato da Lyndon Johnson nel 1964, per assistere alla fine, dopo quasi 100 anni dall’abolizione della schiavitù, della segregazione razziale. Ma una legge non era sufficiente a risanare uno squilibrio che nacque il giorno stesso in cui, nel 1619, i primi schiavi africani misero piede nel nuovo continente. Il razzismo doveva emergere in altre forme.
Negli anni ’70 cominciò il periodo del pugno di ferro di Richard Nixon (grande ispiratore dell’attuale presidente degli Stati Uniti, Donald Trump) nei confronti dei movimenti per i diritti dei neri, ma anche delle donne, dei gay e contro la guerra in Vietnam. Il rispetto della legge e il mantenimento dell’ordine erano i principi cardine di Nixon (principi che hanno sempre, come sappiamo bene, grande presa sull’elettorato), “Law & Order” il suo slogan, il grande nemico era la droga. Ma fu con Ronald Reagan che la battaglia contro la droga divenne una vera e propria guerra, finanziata con milioni di dollari destinati a potenziare le forze di polizia e il sistema carcerario. Cominciò allora un periodo di incarcerazione di massa, e ancora una volta il dito venne puntato sui neri.
Da qui parte il racconto di quello che oggi rappresenta uno dei nodi centrali della questione razziale in America e che Ava DuVernay con XIII Emendamento indaga con acume attraverso interviste autorevoli (persino alla leggendaria Angela Davis) e fornendo una grande quantità di informazioni, ovvero il sistema giudiziario americano e il business delle carceri a esso connesso. A partire dagli anni ‘70, le leggi emanate da Nixon, Reagan, Bush e dal democratico Clinton non hanno fatto che esasperare le disuguaglianze tra bianchi e neri, criminalizzando questi ultimi e imprigionandoli nelle maglie di un sistema giudiziario che non avevano e non hanno, quasi sempre, la forza (soprattutto economica) per combattere.
Non si capisce per quale motivo tanti neri finirono in prigione negli anni ‘80 e per così tanto tempo se non si guarda alla legge emanata dalla presidenza Reagan che puniva il possesso di crack con pene sproporzionatamente più severe rispetto al possesso di cocaina. L’uso di crack esplose in quel periodo e si diffuse rapidamente tra gli afroamericani che rappresentavano la fascia di popolazione economicamente più debole, in quegli anni di grande sperequazione sociale in cui i ricchi diventavano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, semplicemente perché, rispetto alla cocaina, si trovava molto più a buon mercato. In questo modo, Reagan, anziché occuparsi del problema dell’abuso di droga, criminalizzò e incarcerò i più poveri. Lo stesso Newt Gingrich, storico dirigente del Partito Repubblicano intervistato da Ava DuVernay (molto attenta a dare voce in XIII Emendamento, come è giusto che sia, a entrambi gli schieramenti politici) afferma che quella legge rappresentò un grande fardello per la comunità afroamericana e che era, sostanzialmente, ingiusta.
Con Clinton le cose peggiorarono, il democratico si era messo in testa di battere i repubblicani sul loro stesso campo, quello della sicurezza. Allungò la durata delle pene, introdusse le sentenze minime obbligatorie e la regola del “tre strike e sei fuori” (chiunque viene condannato tre volte, finisce in carcere tutta la vita) e propose un piano di 30 miliardi di dollari per potenziare ulteriormente i corpi di polizia e il sistema carcerario, strutturando sostanzialmente l’attuale sistema vigente. Sotto la sua presidenza il numero di detenuti si impennò vertiginosamente e anche se l’ex presidente, alcuni anni fa, ha fatto pubblica ammenda degli errori commessi con la sua legge sul crimine, ormai il danno era fatto e a farne le spese sono state, come sempre, le fasce più deboli e vulnerabili, ovvero latini e neri.
I numeri delle carceri negli Stati Uniti (fonte Prison Policy Initiative) ci dicono che, attualmente, sono circa 2.300.000 i detenuti (il 25% della popolazione carceraria di tutto il mondo su una popolazione che ne costituisce il 5%), il 40% di essi sono neri (gli afroamericani rappresentano circa il 13% della popolazione USA) e la maggior parte di loro è in carcere per droga.
Molti di coloro che puntano il dito sull’alta percentuale di neri e di latini rispetto ai bianchi attualmente presente nelle carceri americane, giungendo spesso ad affrettate conclusioni, ignorano il funzionamento del sistema giudiziario americano. Una buona parte dei detenuti attualmente in prigione per reati minori non ha affrontato un processo (il documentario parla addirittura del 97% del totale), essi vengono sollecitati dall’accusa a dichiararsi colpevoli e ad accettare un patteggiamento e qualche anno di reclusione anziché affrontare un processo con il rischio di prendere il massimo della pena. Il caso drammatico di Kalief Browder raccontato nel documentario è una dimostrazione del perché quasi tutti propendano per un accordo. Nel sistema giudiziario statunitense i soldi fanno la differenza, essere poveri significa non poter pagare la cauzione (che è divenuta essa stessa un business) né permettersi un buon avvocato: molti di quelli che sono in prigione ci restano perché non possono permettersi di uscire.
E, secondo la tesi sostenuta in XIII Emendamento, a tanti fa comodo che essi ci restino, perché le prigioni rappresentano un business sia per chi le gestisce privatamente sia per i loro fornitori di servizi sia per quelle aziende che sfruttano il lavoro dei detenuti. Le lobby fanno pressioni sui legislatori (attraverso un’associazione chiamata ALEC) affinché adottino provvedimenti che giochino a proprio beneficio, e così si potenzia la macchina della criminalizzazione. Il documentario svela gli interessi che si nascondono dietro l’approvazione di alcune delle più importanti leggi che disciplinano il crimine in America, fornendo dati e informazioni difficilmente contestabili.
Quel che è certo è che, alla luce dei fatti, si matura la chiara consapevolezza che non basta vedere un uomo in prigione per etichettarlo come criminale, ma che è necessario conoscere la sua storia e indagare il funzionamento del sistema che lo ha portato fino a lì. Guardando XIII Emendamento si ha la netta sensazione che dalla schiavitù dei campi di cotone ai lavori forzati, dalla segregazione all’incarcerazione di massa, per gli afroamericani in realtà la schiavitù non sia mai finita, ma che si sia solo trasformata.
La verità è che nessuno, tantomeno noi, sa cosa si provi oggi a essere un nero in America. La rabbia esplosa in questi giorni sulle strade delle grandi città americane in seguito all’omicidio di George Floyd è più che semplicemente comprensibile, è il prodotto di secoli di soprusi e ingiustizie subite quasi sempre in silenzio, furti autorizzati e impuniti di diritti, di speranze, di dignità e di vite. #BlackLivesMatter, c’è bisogno di dirlo, di urlarlo, perché ancora oggi in America, a 155 anni dall’abolizione della schiavitù, la vita di un nero sembra davvero non contare niente.
Il nome di George Floyd, soffocato dall’agente Derek Chauvin che gli ha premuto il ginocchio sul collo per 8 minuti e 46 secondi fino a ucciderlo, è solo l’ultimo di una lunga lista di cittadini afroamericani uccisi dalla polizia negli ultimi anni. Morti documentate, molto spesso filmate, inflitte dalle mani salde e sicure di chi sa di essere protetto da decenni di impunità (quasi la totalità dei poliziotti responsabili di queste morti non è stata perseguita). La postura rilassata dell’agente Chauvin, la sua espressione imperturbabile e allo stesso tempo sottilmente soddisfatta mentre uccide un uomo di colore inerme con una mano in tasca, è l’immagine di una frattura secolare ancora insanabile. Quella espressione è il punto esatto da cui l’America dovrebbe partire per tentare di ricostruire dalle fondamenta un sistema nato già rotto.
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