C’era grande attesa per l’ultima produzione originale Netflix, firmata dal regista americano due volte premio Oscar Ron Howard e tratta dal bestseller di J.D. Vance, ma Elegia americana, disponibile sulla piattaforma dal 24 novembre, appiattisce l’autobiografia da cui è tratto sull’unica linea narrativa della famiglia disfunzionale perdendo di vista il racconto dell’America bianca e operaia che aveva fatto la fortuna del libro, finendo col deludere le aspettative.
La storia parte a Jackson, Kentucky, paese di origine dei Vance, durante una rimpatriata famigliare nell’estate del 1997. J.D. (Owen Asztalos) ha 14 anni e appare subito come un ragazzo di buon cuore, vulnerabile, schiacciato tra le forti personalità dell’irrequieta e aggressiva madre Bev (Amy Adams) e della ribelle e sboccata nonna Mamaw (Glenn Close). Fu lei, rimasta incinta a 13 anni, a scappare dai monti Appalachi della sua giovinezza per cercare fortuna in Ohio. Il suo progetto di vita però si scontrò presto con una realtà ben poco rosea, fatta di incertezze economiche e di violenza domestica. Sua figlia Bev sembra aver ereditato la stessa miserabile esistenza, con l’aggravante delle tossicodipendenza. Passa con disinvoltura da un uomo all’altro, è irascibile, violenta, sembra convinta di aver ricevuto un torto dalla vita per il fatto di essere nata in una famiglia disgraziata di una provincia disgraziata e sfoga la sua frustrazione, per non essere riuscita a sollevarsi dalla miseria, su tutti quelli che le stanno intorno.
Bev è una mina vagante e a farne le spese sono soprattutto i figli, il piccolo J.D. e la maggiore Lindsay (Haley Bennett), che devono spesso correre in suo aiuto. Sarà J.D. a riuscire dove sua madre aveva fallito. Lo ritroviamo quattordici anni dopo (interpretato da Gabriel Basso), specializzando in legge a Yale, con l’Ohio ormai alle spalle. È fidanzato con una ragazza indiana, Usha (Freida Pinto), ha un’esperienza come Marine e lavora duro per realizzare il suo sogno americano. Ma è proprio durante la fondamentale settimana dei colloqui, nella quale si decide il suo futuro occupazionale in una grande azienda, che gli giunge una richiesta di aiuto da parte della sorella: la madre Bev è in ospedale per una overdose di eroina, è richiesta la sua presenza. A Middletown, Ohio, dove è cresciuto, ad aspettarlo non è solo la sua famiglia, ma tutta la sua storia, che lentamente si ricostruisce in una serie di flashback. Per continuare a guardare avanti, dovrà fare i conti con le proprie radici e riconciliarsi con il suo passato.
Hillbilly Elegy è il titolo originale del film e del libro da cui è tratto, e da qui forse bisogna partire per capire di cosa parla. Hillbilly è il termine con cui gli americani, con una connotazione quasi sempre dispregiativa, chiamano gli abitanti delle zone rurali e montuose: bifolchi, buzzurri, montanari. Sono gli eredi degli immigrati irlandesi e scozzesi che arrivarono in America tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo e si stabilirono nella regione dell’Appalachia. Famiglie di bianchi che avevano come ricchezza solo la fede e le braccia per lavorare. Hanno fatto i braccianti e poi i minatori e poi gli operai e sono stati abituati a credere che se sei disposto a fare sacrifici e lavori duro alla fine ce la fai. Sono gli stessi che hanno perso tutto nella crisi dell’industria e che ora vivacchiano di sussidi, e si nutrono delle scorie del sogno americano. E nel 2016, a pochi mesi dall’uscita del libro, hanno votato Trump (e così hanno fatto anche nel 2020).
Bello il montaggio pensato da Ron Howard all’inizio del film, quando dalla foto di famiglia dei Vance, in Kentucky, torna indietro e ripercorre le generazioni passate mostrandoci foto in bianco e nero sempre più vecchie eppure sempre uguali. Il denominatore comune è proprio la centralità della famiglia. “Family is the only thing that means a goddamn” dice la nonna al piccolo J.D. La famiglia è l’unica cosa che conta. Anche se è una famiglia tossica, disfunzionale, autodistruttiva, che può rovinarti la vita. La nonna, qui con il volto indurito e il corpo azzoppato di una quasi irriconoscibile Glenn Close, è una figura centrale della storia. Burbera e di poche parole, sempre con una sigaretta accesa tra le labbra, sarà lei a crescere J.D. nell’ottimismo e nello spirito di sacrificio. Lei è la hillbilly, la vera portatrice di quei valori in cui il protagonista si è formato riuscendo a realizzare il suo sogno americano, nonostante tutto. Per J.D. Vance (che poi è diventato un repubblicano doc) il grande mito ha funzionato, mentre lì intorno i suoi coetanei crescevano in un devastante impoverimento culturale, tra piccoli furti e guerre domestiche, fumando erba e mangiando schifezze, mentre continuando a figliare tramandavano la maledizione.
È proprio questo che manca, però, al film di Ron Howard: l’attenzione al contesto culturale e socioeconomico da cui sono nate queste famiglie disfunzionali sulle cui dinamiche il regista ha preferito indugiare, finendo per sfiorare solamente temi invece centrali come la sanità privata, la disoccupazione, il problema della tossicodipendenza e dell’alcolismo e la crisi economica di una delle aree più culturalmente arretrate del paese. E alla fine, Elegia americana appare solo una carrellata stancante di comportamenti borderline elencati nella lunga serie di flashback di cui si compone il film, spesso raccordati con stacchi di montaggio che sanno di compitino ben fatto.
Autore di questi comportamenti è quasi sempre la madre Bev, interpretata da una Amy Adams qui alle prese con una specie di febbre agonistica che la fa incappare nella sovra-recitazione. Più centrata la sempre straordinaria Glenn Close, da molti anni in aria di Oscar con sette nomination all’attivo. Forse il prossimo potrebbe essere il suo anno, ma la vittoria non è per niente scontata, nonostante Ron Howard e le sue protagoniste facciano il possibile per confezionare un film strappastatuette. Le due attrici sovrastano per statura il poco carismatico Gabriel Basso, che rischia di scomparire pur essendo il protagonista della storia. Tengono invece la scena il giovane Owen Asztalos e soprattutto Haley Bennett nei panni della responsabile e forte sorella maggiore di J.D. Lindsay, probabilmente il personaggio più riuscito di tutto il film, quello che rivela le maggiori sfumature, il più complesso e il più autentico.
La luce naturalistica, la cui direzione è stata affidata da Ron Howard a Maryse Alberti che ha una lunga esperienza nel cinema documentaristico, e l’uso della macchina a mano non bastano a rendere Elegia americana il ritratto vivo e genuino di una famiglia del Midwest, come era probabilmente nelle intenzioni del regista, e non riescono a permetterci di penetrare davvero nella psicologia di questa gente che appare, a dire il vero, molto poco permeabile. Ma un aspetto il film sembra coglierlo, ovvero la realtà di una frattura sociale di cui l’America sembra soffrire oggi più che mai e che è ben rappresentata dai risultati delle ultime elezioni. La distanza tra gli Hillbilly, i Rednecks, abitanti dell’America profonda e gli americani colti e benestanti della East Coast, i cosiddetti Wasp a cui J.D. sa di doversi rivolgere per assicurarsi un futuro migliore di quello che è toccato alla sua famiglia, appare insanabile.
Questa frattura si riflette nel conflitto tutto interno dello specializzando di Yale che nonostante ambisca ad avere il suo posto nel mondo che conta non può rinnegare le proprie radici, il luogo da cui proviene. Purtroppo però il punto di vista con cui Ron Howard racconta questa storia sembra proprio quello dell’americano privilegiato che guarda dall’alto in basso i suoi rozzi connazionali e si sforza, con atteggiamento paternalistico e un po’ patetico, di capirli e di rappresentarli. E non ci riesce.
Forse, se questa materia fosse stata affidata alle mani di un regista meno incline ai sentimentalismi, Elegia americana sarebbe stata tutta un’altra storia e noi avremmo avuto un ritratto più profondo e significativo di quelli che Scott Turow sulle pagine de «La lettura» di questa settimana chiama “gli altri americani”.
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