Francesco Cataldo è nato a Siracusa il 26 settembre 1975, da mamma di Licata fatta di mare e pescatori e papà di Buccheri, un paesino della zona montana di Siracusa. “La mia vita si snoda su questi binari con una valle di mezzo, che corrisponde alla distanza tra mio padre avvocato “tutto d’un pezzo”, razionale ed equilibrato e mia mamma laureata in giurisprudenza anche lei, ma emozionale come me” Con queste parole Francesco si racconta con ironia dicendo di assomigliare ad un quadro di Picasso, con una testa qua e l’altra là nel tentativo di disegnare il caos emotivo dal quale la sua arte ha origine. “Io sono un bel mix tra loro, con mia mamma a rappresentare la parte emotiva e papà il mio tentativo di mettervi ordine”
Francesco comincia a sette anni a suonare il pianoforte, poi spinto dalla madre prende in mano la chitarra, dalla quale non si separerà più. Laureato anche lui in giurisprudenza, si diploma al Conservatorio e all’età di ventitré anni approda al jazz che diventa il suo mestiere.
“I brani di Francesco, belli come una carezza infinita destinata a perdurare per un lungo viaggio” Pupi Avati
Le parole di Pupi Avati dipingono alla perfezione il jazz raffinatissimo di Francesco che con le sue chitarre, incanta. Amante della semplicità e dell’eleganza mai sovraccarica di tecnicismi, Francesco tocca le corde più profonde dell’anima. Le sue composizioni sono racconti, pagine di vita, dove si sentono il profumo degli agrumeti delle colline di Siracusa e la salsedine di Ortigia. Francesco ha saputo andare alla ricerca dell’essenza della sua arte, con lentezza e momenti di “deserto”, attirando l’attenzione dei grandi del jazz internazionale quali Scott Colley, contrabbassista di fama mondiale, col quale ha inciso nel 2013 Spaces. Dalla Sicilia a New York, non è così semplice eppure Francesco non solo ci è riuscito ma ha portato gli americani ha suonare il proprio jazz, “in punta di piedi”, senza eccessi, senza forzature convincendoli anzi con la sua semplicità.
“Quando parlo di semplicità intendo il “togliere” quanto è superfluo. Se dovessi paragonare la mia musica ad un piatto, non sarebbe complicato o carico di sapori ma una pasta di ottimo grano, con un pomodoro fresco e profumato, maturato al sole e un filo d’olio d’oliva. Non è facile togliere formule, costrutti musicali. Per me è un esigenza, una ricerca che mi riporta alla bellezza pura della musica”.
Giulia arriva dopo anni di riflessione, di “deserto”, non sterile ma necessario a svuotarsi di tutto per perdersi, ritrovando nuovi punti di riferimento. Giulia profuma della sua terra e, come nel brano Levante (di Ortigia Siracusa), ne evoca tutta la bellezza. Un disco autobiografico dedicato alla figlia Giulia, ritratta in copertina che sembra guardare al mare e alla vita che il padre le racconta. In quello sguardo c’è anche Francesco che è ancora u picciriddu, il fanciullino di sempre che sa guardare alla vita con stupore. Un’eleganza e una poetica che contraddistinguono le sue composizioni, per le quali sa attendere, senza fretta assaporandone ogni fatica, ogni sofferenza come per mettere al mondo un figlio.
“Francesco è un giovane che sa riscaldare con la sua meravigliosa sensibilità lirica, sia come compositore sia come musicista” Marc Copland.
Francesco Cataldo, ha portato la sua musica dalla Sicilia a New York. Chitarrista per passione e per sfida, in Giulia, Francesco ha scelto le chitarre acustiche dopo l’elettronica di Spaces. “ Ho sentito la necessità di spogliare la mia musica del superfluo. Giulia è un album autobiografico, il mio ritorno a “casa”. Sono composizioni che mi rappresentano, senza fronzoli dove mostro la mia anima con semplicità. Oggi sono felice di esprimermi senza vincoli o costrizioni, con la dovuta lentezza, so di essere tornato laddove è partito il mio viaggio” Con queste parole Francesco si racconta con la stessa semplicità che caratterizza la sua musica, che trova ispirazione nella figura e nella filosofia di San Francesco: l’amore per le cose semplici, la lentezza che ne permette la scoperta e il deserto per liberarsi da qualunque costrutto e mettersi in ascolto della propria anima. Giulia ha tessiture delicate e impalpabili, ricche di sfumature poetiche, di tratteggi che sembrano accennati ma carichi di linee melodiche e profumate che denotano uno stile e un gusto assolutamente inconfondibili.
Con Spaces, inciso con Scott Colley, uno dei più grandi contrabbassisti al mondo, hai stregato il jazz internazionale. Come è nato questo nuovo disco così diverso?
Dopo la dimensione sofisticata e enfatica della fase elettrica, ho avuto l’urgenza dello svuotamento e della semplificazione. Il passaggio del suono elaborato dell’elettrico alla semplificazione delle corde di nylon solo amplificate che mi mettono a nudo. Giulia è un ritorno a casa, come se mi fossi spogliato del superfluo. Rappresenta la mia essenza. Lì non ci sono effetti o scuse e nessun inganno. Una ricerca della lentezza, perché se si parte all’avventura con la fretta e l’ansia della scoperta di nuovi mondi, a casa si ritorna con pacatezza, assaporandone l’avvicinamento passo dopo passo. Il suono di chitarra classica e la chitarra acustica baritona in Giulia è il frutto di una lunga ricerca, non solo tecnica (corde, set up…) ma anche e soprattutto introspettiva. Come il cantante cerca per anni la sua voce interiore e fisica, lo strumentista dedica la sua vita alla ricerca del suono che più lo possa “rappresentare” all’esterno, al mondo, al pubblico che ascolta. Giulia è mia figlia e in quest’album le racconto la vita, a quella finestra non c’è solo la mia bambina, ma anche il fanciullino che è in me, per sempre.
Parli spesso di lentezza che per te è diventata uno stile di vita. Vuoi parlarcene?
Credo che la lentezza, spesso sottovalutata in un mondo che ha sempre fretta, sia fondamentale per gustare la vita e comprendersi. Anche un attimo fa, stavo suonando con la chitarra Bach, lentamente come forma di riflessione, facendo movimenti lenti, come una sorta di yoga sulla chitarra. Questa pratica mi aiuta tantissimo. E’ piuttosto complicato e per riuscirci serve tanta concentrazione e rilassamento. Ci sono giornate in cui, nonostante l’applicazione, non mi riesce. A me serve tantissimo perché sono convinto che solo rallentando si riscopra la vera bellezza. Così anche nelle cose di tutti i giorni, la lentezza è la chiave di tutto. La mia musica è fatta di temi che non conoscono frenesia. La musica deve fare bene, prima di tutto a me stesso per diventare poi condivisione.
Come ti definiresti come musicista?
Sono un musicista complicato, un rompicapo. Un puzzle con i pezzi in disordine e ogni giorno cerco di metterne a posto un po’. Sono nato per cercare una pace interiore che a volte mi accarezza, poi sfugge come una farfalla. Sono imprevedibile e ho deciso di abbandonarmi al flusso senza cercare di contenerlo. Mia moglie che contrariamente a me, è razionale mi aiuta col silenzio che è la sua “arma” bianca. In Spaces le ho dedicato un brano che s’intitola Your Silence, che ben descrive la nostra complementarietà.
C’è un brano che esprime al meglio questa tuo modo di guardare alla vita?
Circles che è l’ultimo brano, l’epilogo del disco e che immagino come un sipario che si chiude. Circles sono cerchi, bolle di sapone che volano sulla nostra testa. La nostra vita è fatta di cicli, lunghi o brevissimi che si aprono e si chiudono. In questo brano, che suono con la baritona, immagino queste bolle di sapone sopra di me a rappresentare esperienze fatte e concluse con quel po’ di malinconia che l’accompagna. Un concerto fatto, un viaggio, un seminario, un incontro, una giornata che volge al termine, sono tutti cerchi, micro cicli. Circles è malinconia, che si acuisce ogni volta, in uno stato d’animo costante, un colore dell’anima che si può avere come no. Quando Pascoli vede nel campo di grano l’aratro abbandonato e ne fa una poesia, potrebbe essere preso per matto ma esprime questa sorta di malinconica visione. Circles è un assolo di chitarra baritona, dai suoni grevi che rappresenta per me un piccolo pianoforte, ideale per raccontare questo modo di guardare alla vita.
Giulia, ha raccolto ancora una volta, il consenso del jazz internazionale: hanno suonato con te Marc Copland al piano e una coppia ritmica d’eccezione con Pietro Leveratto e Adam Nussbaum. La tua musica che profuma della salsedine di Ortigia, ha stregato gli americani. Quali sono i tuoi progetti?
Pochi giorni fa ho suonato allo Zafferana Jazz Festival, alle pendici dell’Etna. Questo live ha rafforzato la mia voglia di tornare a condividere la mia musica. Il mio cd è in distribuzione in Europa e negli Stati Uniti e l’obiettivo è di andare a suonare anche là. Ho avuto una grande soddisfazione durante il lockdown, quando il mio disco è andato in rotazione radiofonica a Chicago, Boston, Kansas City e New York. Una tra tutte la NPR radio di Chicago l’ha messo in rotazione moltissimo. In Giappone, nello stesso periodo, Giulia è stata seconda in una playlist prestigiosa. Queste sono soddisfazioni importanti che m’incoraggiano a continuare su questa strada, che sento appartenermi. Non sto scrivendo, ma sono nella fase di “svuotamento”, in cui come ho detto, faccio meditazione e yoga con la chitarra che rappresenta per me, un’eterna sfida, un viaggio meraviglioso nell’anima.
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