Oggi 13 novembre, Giornata mondiale della gentilezza, è l’occasione per riscoprire la più nobile delle virtù umane, che non possiamo rischiare di perdere.
Nel 1992, durante un esperimento, un team di ricercatori guidati dal neuroscienziato italiano Giacomo Rizzolatti si imbatté casualmente nella scoperta di una cellula nervosa ancora sconosciuta, che costituiva un gruppo neuronale diffuso in diverse regioni del cervello: i neuroni specchio. Questo particolare tipo di neuroni, che si attiva quando vediamo qualcuno compiere un gesto e quando lo compiamo noi stessi, è responsabile di uno dei comportamenti più importanti che hanno determinato lo sviluppo del genere umano, quello imitativo, legato a sua volta alla nostra fondamentale capacità di apprendimento. I neuroni specchio non sono semplicemente quelli che ci fanno sbadigliare quando vediamo qualcuno che sbadiglia, ma costituiscono la base neurobiologica che ci consente di comprendere gli altri e sono la prova fisiologica di uno degli aspetti che ci rende umani: l’empatia.
La capacità di immedesimarsi nei propri simili è il collante che ha reso possibile la nascita dei primi gruppi sociali. In questo modo l’homo sapiens ha gettato le basi della nostra civiltà.
È ovvio che non dobbiamo pensare ai primi esseri umani come a delle mammolette che scoppiavano in lacrime davanti alla prima ferita riportata da un altro membro del gruppo, la sopravvivenza era (ed è ancora, in altri modi e con altri mezzi) una lotta perenne, ma oggi siamo ben lontani da un’idea di darwinismo sociale in cui l’uomo si fa strada eliminando di volta in volta i suoi simili più deboli. Questo non è il modello da seguire e, se si guardano i recenti studi di psicologia del lavoro, non è nemmeno il più efficace.
Alcune aziende (ancora troppo poche ahinoi) hanno capito da tempo che un ambiente sereno, in cui i dipendenti lavorano in stretta collaborazione tra loro e nel rispetto reciproco, aumenta la produttività e il rendimento. Siamo animali sociali, la struttura del nostro cervello, di cui una buona parte è dedicata alla comprensione delle azioni e delle motivazioni degli altri, ne è la prova. Il modello individualista che ci disegna come creature egoiste mosse solo da interessi personali si adattava bene al liberismo sfrenato di qualche anno fa, oggi la parola chiave è interconnessione. È nel rapporto con l’altro che l’essere umano trova gratificazione.
Ed è all’interno del rapporto con l’altro che si può parlare di gentilezza.
La sua stessa etimologia è legata alla socialità, dal latino gentilis, che appartiene alla gens, e cioè a un gruppo di famiglie patrizie romane che si riconoscevano in un antenato comune. Dalla nobiltà di sangue, la gentilezza è divenuta con Dante una nobiltà di spirito (“Tanto gentile e tanto onesta pare”) ed è con questa accezione che ci è stata tramandata.
In Elogio della gentilezza (Ponte alle Grazie, 2009) gli autori Adam Phillips e Barbara Taylor la associano a termini come generosità, bontà, amorevolezza, solidarietà, compassione, altruismo e ne lamentano la mancanza di considerazione che oggi le viene riservata. La gentilezza è vista con sospetto, perché potrebbe nascondere il tentativo da parte di chi la rivolge a noi di manipolarci per ottenere qualcosa. No, la gentilezza è una forma di narcisismo, chi compie un gesto gentile cerca solo appagamento per se stesso. La gentilezza è un segno di debolezza, l’uomo deve essere forte e indipendente. La gentilezza è una virtù minore.
Disillusione e diffidenza ci hanno (quasi) fatto dimenticare che la gentilezza è semplicemente una delle massime espressioni della nostra natura di esseri umani. È una nobiltà d’animo, comune a chi è bendisposto verso l’altro, è una tensione etica, che si dovrebbe perseguire e incoraggiare.
Oggi, 13 novembre, si festeggia la Giornata mondiale della gentilezza introdotta nel 1998 dal World Kindness Movement, una coalizione internazionale di organizzazioni non governative che si propongono di promuovere la gentilezza nel mondo (anche l’Italia ne fa parte). Anche se ormai esistono giornate mondiali per ogni cosa e tutto si trasforma in evento, l’idea di dedicare un giorno alla celebrazione della gentilezza sembra davvero una buona occasione per provare a recuperare l’importanza di questa virtù umana, tra tutte le virtù la più sottovalutata, offuscata e ridicolizzata negli anni dalla retorica del vincente.
“Siate dei pazienti di voi stessi, bravi, propositivi, anche un po’ disperati – cercate le medicine antiegoismo più efficaci, cercatele con energia, finché vivrete. Scoprite cosa vi rende più gentili, cosa vi libera e fa emergere la versione più affettuosa, generosa e impavida di voi stessi – e cercatelo come se non ci fosse niente di più importante. Perché, in effetti, non c’è niente di più importante.” Con questo discorso (ora contenuto in L’egoismo è inutile. Elogio della gentilezza edito da Minimum fax) lo scrittore George Saunders si rivolgeva ai laureandi della Syracuse University l’11 maggio 2013, secondo la tradizione, prevalentemente americana, del commencement speech.
La gentilezza, quindi, come esortazione per le giovani generazioni da parte di un uomo che, a distanza di anni, non riusciva a superare il rimpianto per non essere stato gentile con una compagna di scuola, timida e nervosa, che tutti i ragazzi prendevano in giro.
Certo, si potrà obiettare che è facile per uno scrittore di successo o per un ragazzo privilegiato che si sta laureando in una delle università americane più prestigiose essere gentile con gli altri, allo stesso modo in cui oggi si taccia di ipocrisia un parlamentare o una cantante o un papa che esortano all’altruismo, alla comprensione o all’accoglienza. Per chi vive nel disagio economico in una delle tante periferie del mondo la gentilezza potrebbe non apparire come una priorità. Le disuguaglianze economiche e sociali non sono certo il terreno favorevole per coltivare la gentilezza, ma siamo arrivati a un punto in cui anziché cercare di cambiare le cose ci si fa la guerra tra poveri.
Ed è strano che proprio nei mezzi che si definiscono social alcuni uomini e donne diano il peggio di sé nel rapporto (anche solo virtuale) con gli altri. I commenti che si leggono su facebook restituiscono un immagine poco edificante (e sicuramente poco gentile) del nostro paese, quella non di un paese arrabbiato (un paese arrabbiato si solleva), ma solo frustrato e astioso.
Prendersela con qualcuno che neppure conosciamo perché siamo frustrati, non è una giustificazione. Insultare chi ha avuto successo perché noi non ce l’abbiamo fatta, non è una giustificazione. Inveire contro chi ha meno perché noi abbiamo poco, non è una giustificazione. Negare una parola o un gesto gentile a un altro essere umano perché noi non li abbiamo ricevuti, non è una giustificazione. Non sono giustificazioni perché la gentilezza, davvero, non costa nulla.
Ciò che fa ben sperare è che ogni volta che si è rintracciato l’autore di un commento offensivo e violento, costui, come se fosse improvvisamente precipitato nella realtà vera dall’alto delle colline verdeggianti e anonime di facebook, abbia ritrattato e si sia scusato pubblicamente con il destinatario della sua invettiva. Forse è paura della pubblica gogna o timore di subire sanzioni, oppure è il ritrovato contatto con un altro essere umano che porta naturalmente a ridimensionare il proprio comportamento. Forse, al di là della piazza social, si può ancora sperare nella tendenza all’empatia dell’essere umano.
D’altra parte, quando si torna a casa dal lavoro, quando si spegne il pc o si mette via lo smartphone, inevitabilmente ci si trova a tracciare un bilancio della propria giornata, o dell’intera vita, e delle molte azioni compiute, ed è proprio lì, in quel momento, che ci assale il rimpianto, comune in tutti gli uomini ancora umani, per tutte le volte in cui non siamo stati gentili.
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