Sembra strano stare qui a scrivere di uno spettacolo teatrale, Glory Wall visto in scena al Teatro Vascello di Roma, a due giorni dalla nuova chiusura di tutti i teatri. Eppure non c’è momento migliore di questo per continuare a parlare del buon teatro e di chi in Italia continua a farlo, a produrlo e a rappresentarlo, nonostante tutto.
“Mai più soli” è la formula con cui il Teatro Vascello ha lanciato la programmazione della sua nuova, breve stagione, da settembre a dicembre 2020, organizzata da Manuela Kustermann e dai suoi con uno sguardo attento alla drammaturgia di autori meno noti al grande pubblico e bruscamente interrotta dalle disposizioni del nuovo Dpcm. Il Teatro Vascello – La Fabbrica dell’Attore è un punto di riferimento, romano e nazionale, imprescindibile per il teatro d’arte e di ricerca, centro di produzione che negli ultimi anni ha sostenuto alcuni dei protagonisti assoluti della scena teatrale contemporanea, tra cui Rezza/Mastrella e Roberto Latini, con un occhio sempre vigile alla nuova drammaturgia.
Una delle ultime produzioni, in collaborazione con Elledieffe, è Glory Wall, spettacolo vincitore dell’ultima Biennale Teatro, diretta da Antonio Latella, quest’anno dedicata al tema della censura con 28 spettacoli per buona parte firmati da giovani e giovanissimi autori. Tra questi c’è Leonardo Manzan, giovane (ha 28 anni) autore e regista cresciuto nella fucina di Biennale College e già vincitore nel 2019 del bando per registi under 30 con Cirano deve morire. Glory Wall è il nuovo progetto di Manzan, scritto insieme a Rocco Placidi, che nel poco velato rimando del titolo al cosiddetto “glory hole”, il buco attraverso il quale si possono avere rapporti sessuali nel più totale anonimato (qualcuno ricorderà Irina Palm – Il talento di una donna inglese con Marianne Faithfull) contiene già quello che sarà il paradosso e la provocazione intorno a cui ruota la riflessione degli autori: l’unica forma di censura praticabile in un momento storico di grande libertà e in un settore ormai troppo poco influente da valere un tentativo di censura è l’autocensura.
Il Glory Wall del titolo è un grande muro bianco mezzo scrostato che prende quasi tutto il boccascena e che separa la platea dagli attori, di loro si vedono solo la bocca, le mani e le braccia protese attraverso buchi di varie misure che si aprono mano a mano. Quello che c’è oltre la parete ci viene nascosto, censurato sembra appropriato dire. Queste mani e queste braccia, insieme a una voce femminile che è quella della bravissima Paola Giannini, dialogano con il pubblico, lo indicano, lo illuminano con le torce, lo invitano a partecipare, ad accendere una sigaretta che fuoriesce attraverso un piccolo buco, a raccogliere un libro da terra, a parlare e persino a cantare (un momento di karaoke con Felicità di Al Bano e Romina Power che rappresenta probabilmente il punto più basso dello spettacolo). L’interazione con il pubblico è fondamentale, se il pubblico non sta al gioco lo spettacolo non procede. E anche qui, con il pretesto di far interpretare agli spettatori dialoghi immaginari tra alcuni grandi censurati della storia, Giordano Bruno, Pierpaolo Pasolini e il Marchese de Sade, con l’aggiunta dell’improbabile Al Bano (anche lui comunque censurato in Ucraina), si mette la censura nell’impossibilità di operare se non sotto forma, di nuovo, di autocensura: il pubblico non si può censurare, a meno che non sia esso stesso a farlo (non lo fa e in sala volano oscenità soprattutto per bocca del Divin Marchese).
Il Glory Wall è un’efficace metafora di censura, un muro che si fa schermo quando il regista vi fa proiettare i nomi dei tanti artisti censurati negli anni, tela quando lo usa per allestire (con brillanti intuizioni registiche) celebri opere d’arte “viventi”, pagina bianca quando, all’inizio, ci digita sopra i suoi dubbi sulla possibilità stessa di fare uno spettacolo sulla censura con la massima libertà. Può esistere davvero uno spettacolo sulla censura che non sia censurato? Oggi, nella nostra parte di mondo, ha senso ancora parlare di censura? Nel sentire le oscenità pronunciate dallo spettatore/de Sade, in pochi tra il pubblico del Teatro Vascello devono essersi imbarazzati, probabilmente nessuno. Siamo abituati a tutto ormai e qui sta la questione: la troppa libertà uccide l’arte? Citando una frase di Paul Valéry “l’arte vive di costrizioni e muore di libertà” Manzan e Placidi, attraverso il discorso sulla censura, avviano una più ampia riflessione sul teatro italiano contemporaneo e non esitano a tirargli una bella stoccata sul finale. Glory Wall si chiude con un’intervista al regista, di cui vediamo solo il pene attraverso uno dei tanti buchi aperti, che critica la scena teatrale contemporanea accusata di non avere più nulla da dire, una scena che ha perso il potere di incidere, di turbare, di scandalizzare, che non fa paura e non merita quindi le attenzioni della censura.
Si può essere d’accordo con gli autori, il punto però è che con questa invettiva Manzan cade nella trappola del didascalismo, dove invece il suo teatro non sembrava averne necessità con una messa in scena davvero originale che, come recita la motivazione del premio assegnatogli a Venezia da una giuria internazionale, “porta l’esperimento di Beckett con Not I a un livello superiore”. Con l’intervista finale il regista tenta di spiegarsi, abbandona i nonsense, le allusioni e il gioco con il pubblico e cade, nonostante l’espediente autoironico del pene che parla in sua vece, nella retorica e nell’autoreferenzialità, dandoci un’ulteriore prova del fatto che è molto meno interessante sentir parlare un artista della sua opera che vederla. Sempre che l’opera in questione valga la pena di essere vista. Ma in questo caso, senza dubbio, lo è.
Mettendo da parte la questione estetica sulla messa in scena di Glory Wall, la riflessione degli autori sull’irrilevanza del teatro nella nostra società è una realtà che in questi grigi tempi di pandemia balza dolorosamente agli occhi di tutti noi. Tutto il comparto dello spettacolo dal vivo sembra soffrire di un pregiudizio diffuso nel sentire comune per cui viene troppo spesso associato a superflue velleità artistiche di un gruppo sostanzialmente di privilegiati. Nel dibattito nazionale trovano ampio spazio le giustificate preoccupazioni verso categorie ampiamente danneggiate dalla pandemia e dalle conseguenti drastiche misure di contenimento, mentre sembrano sempre meno pressanti le altrettanto giustificate preoccupazioni verso un settore che pure dà lavoro a circa 400.000 operatori, tra i quali gli artisti di grande fama occupano solo un piccolo spazio. Il restante spazio è occupato da migliaia di tecnici, maestranze, attori, registi, musicisti, direttore di festival e di teatri che faticano a portare avanti i propri progetti e che, con quest’ultima chiusura, hanno visto mortificati i tanti sforzi compiuti in questi mesi per il rispetto delle regole e dei severi protocolli imposti con l’obiettivo di offrire al pubblico un ambiente sicuro.
I dati dell’AGIS (Associazione Generale Italiano dello Spettacolo) sono chiari: in questi mesi, tra lirica, prosa, danza e concerti, su circa 350.000 spettatori, si è accertato 1 solo contagio. Lo spettacolo dal vivo è (o bisognerebbe dire era) un “luogo sicuro”. Eppure si è scelto di chiudere, una decisione che ha suscitato molte polemiche. Perché chiudere un luogo in cui si sta necessariamente fermi, seduti al proprio posto, distanziati e con la mascherina per tutta la durata dell’evento? Con oltre 50.000 contagi giornalieri la Francia ha lasciato aperti cinema e teatri con l’obbligo, ovviamente, di rispettare il coprifuoco. Il governo italiano, con il beneplacito del rigorista ministro Franceschini, ha optato per la chiusura totale. Si parla addirittura di un duro scontro tra Franceschini e il Ministro dello Sport Spadafora per la risoluzione del quale si sarebbe barattata la chiusura dei teatri con quella delle palestre, ma la dinamica che ha portato a questa scelta non è certa. La stessa scelta appare ancora più discutibile considerando che non si sono presi provvedimenti per la chiusura di altri luoghi chiusi come le chiese, che pure attraggono categorie a rischio come gli anziani ma che evidentemente dobbiamo ritenere intoccabili. Resta il fatto, comunque, che il settore appare sacrificabile.
Perché? Probabilmente per quella che Mario Martone su La Repubblica chiama “la mistificazione del tempo libero”: il teatro, (e in generale lo spettacolo dal vivo) sarebbe in questo momento un lusso che non possiamo permetterci. Un momento di evasione di cui possiamo fare a meno. Tornando alla severa critica fatta da Leonardo Manzan con Glory Wall nei confronti del teatro italiano contemporaneo, verrebbe da dire che lo stesso teatro, in questa visione che oggi si ha di esso, ha le sue responsabilità. È scivolato negli ultimi anni in una dimensione di mero intrattenimento commerciale, quasi come fosse una declinazione della televisione, eludendo la sua funzione di lente di ingrandimento sul mondo e sulle passioni, luogo di formazione della coscienza critica. Una tendenza che non possiamo non vedere ma che pure non esaurisce una realtà variegata in cui sopravvivono importanti presidi come il Teatro Vascello. Ci auguriamo che questa profonda crisi che si sta abbattendo sul teatro possa essere una occasione di ripensamento e di recupero del suo valore e dell’importanza che riveste nella costruzione di una società che si vuole definire civile. Ha ragione Martone quando scrive “il teatro non riguarda gli artisti e i lavoratori dello spettacolo […] riguarda tutti. Il teatro, l’opera, e dal secolo scorso anche il cinema, sono necessari non meno della scuola perché servono, come la scuola, a far luce nelle menti, e quelle degli adulti non ne hanno bisogno meno di quelle dei ragazzi, ed è senza luce che si sprofonda nel buco nero.”
Glory Wall
di Leonardo Manzan e Rocco Placidi
con Leonardo Manzan, Rocco Placidi, Paola Giannini e Giulia Mancini
scenografie Giuseppe Stellato
light designer Paride Donatelli
sound designer Filippo Lilli
regia Leonardo Manzan
produzione La Fabbrica dell’Attore -Teatro Vascello, Elledieffe
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