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In exitu: la parola di Giovanni Testori risuona nel corpo di Roberto Latini

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Ripubblicato a luglio da Feltrinelli e portato in scena da Roberto Latini, il romanzo di Giovanni Testori del 1988, In exitu, è un grido di aiuto, scandaloso e potentissimo, di un reietto che muore nell’indifferenza, e un atto d’accusa verso la disumanizzazione della società. E anche oggi che l’eroina non è più un’emergenza e l’omosessualità un crimine contro la decenza, il messaggio di In exitu (da leggere tutto d’un fiato se il fiato vi regge) arriva dritto e immediato a turbare la coscienza.

In exitu è il racconto in prima persona degli ultimi istanti di un tossico omosessuale che ripercorre i momenti segnanti della sua vita prima di morire per il definitivo buco in una latrina della Stazione Centrale di Milano. Attraverso una serie di caotici e disorientati salti temporali, Riboldi Gino detta le sue memorie a uno scrivano che gli è accanto, l’unico essere umano che sembra accorgersi della sua esistenza in una città che ignora le sue richieste d’aiuto. Mentre percorre a fatica il percorso dalla scalinata di marmo fino a quello che sarà il suo loculo, Riboldi Gino vomita la sua vita, la famiglia semplice, la madre cattolica, il padre morto di cancro, le gite al lago, la comunione, gli anni della scuola, le prime droghe, i primi contatti con gli uomini. Flashback che irrompono casuali e senza ordine tra bestemmie e deliri di una mente mangiata dall’eroina.

Si presenta alla terza pagina, Riboldi Gino, prima il cognome e poi il nome come in un appello a scuola o un verbale in questura. Riboldi Gino, la sua dimensione pubblica, di ragazzino fragile prima, incompreso e vessato dalla gelida «signora maes» e di marchettaro eroinomane dopo, preso a botte dalla polizia. Il Riboldi, il Ribòl, abitante reietto di una città «contristata» e «derelitta» nelle cui notti vagano, come morti che camminano, i tanti Riboldi Gino in cerca di qualcuno a cui vendersi per trenta denari nei cessi della Stazione Centrale. Giuda che tradiscono se stessi per una dose, escrementi della Milano da bere, la «cementizia asina», più marcia dei buchi pesti e violacei che crivellano il corpo del Ribòl. Con In exitu Testori denuncia la dimensione disumanizzata e disumanizzante della sua Milano «insensata, marcescente città civis! Regno domà, domà delle merde dei cani! Che più cari hai dei cristiani dei!». Una città che passa sopra indifferente al corpo di un poveraccio che chiede aiuto e intanto crepa.

Gino! Lo straziante urlo della madre alla vista del martoriato corpo del suo ragazzo lo riporta alla dimensione umana, intima, di figlio. La madre, forte e devota, e il «carcinomato» padre morto troppo presto, sono in qualche modo la sua coscienza e la sua vergogna. Attraverso di loro, vede il ragazzo che era, «l’esclamata bellezza», e chiede perdono per l’uomo che è diventato, un «nissùn», un «niènt», impastato di vomito, sangue, sperma e merda. Testori non ci risparmia niente nel racconto della sua condizione e il Riboldi morente, consapevole di esserlo, indugia e ripete ossessivamente i termini della sua abiezione, li tronca, inventa prefissi, stravolge la sintassi, crea neologismi come a trovare nuove forme di tormento nella tormentata lingua, compiacendosi dell’autoflagellazione. Una lingua presa a morsi, lacerata, atomizzata da un utilizzo assillante e illogico della punteggiatura. Un ritmo febbrile e delirante come la mente annebbiata dall’eroina di colui che parla in prima persona. Una parola drogata.

Il lento cammino di Riboldi Gino dalle scale della «tutankamica» stazione fino al cesso in cui si farà il definitivo buco è una via crucis e lui è un cristo martire idealmente adagiato tra le braccia invisibili di una madre silenziosa e dolorosa, come in una pietà. Qui, più che nel linguaggio erotico, risiede lo scandalo di In exitu. Il cattolico Giovanni Testori, omosessuale tormentato, lancia il messaggio cristiano di compassione e di soccorso agli ultimi e ammanta la morte del peccatore Riboldi di una luce salvifica. Lo stesso titolo, In exitu, tratto dall’incipit del Salmo 113 sull’uscita degli ebrei dall’Egitto “In exitu Isräel de Aegypto” è una dichiarazione. Nel canto secondo della Commedia, Dante lo fa cantare dalle anime che approdano nel Purgatorio in cerca di salvezza, come il Ribò. 

Giovanni Testori
Giovanni Testori

In exitu è l’ultimo e più estremo romanzo, nella materia trattata e nel linguaggio utilizzato, di un autore che ha fatto dello studio sulla parola il centro della propria produzione letteraria e teatrale. Lo stesso Riboldi Gino nel romanzo detta la sua storia alla figura meta letteraria dello scrivano, suggerendo parole e accenti, anche lui, in qualche modo seppur moribondo, attento alla forma. Si potrebbe tracciare una linea tutta milanese che da Manzoni, passando per Gadda, arriva fino a Testori, che unisce tre generazioni di autori ossessionati dalla parola. Quella di Testori è una lingua originale, debordante, che lievita su un impasto di latino e latino maccheronico, dialetto lombardo e storpiature di francese e inglese, che con In exitu si tende al massimo fino a toccare i limiti della comprensione e della pronunciabilità. Eppure, essa richiede di essere declamata ad alta voce, è un corpo fonetico che, non a caso, trova nel teatro il luogo prediletto per la sua massima espressione.

In exitu: la parola incarnata

Scritto come romanzo nel 1988, In exitu viene immediatamente e appositamente riadattato come opera teatrale per Franco Branciaroli che vestirà i panni di Riboldi Gino con lo stesso Testori sul palco a interpretare lo scrivano (dal sodalizio con l’attore nasce la Branciatrilogia che comprende oltre a In exitu, Confiteor e Verbò). È entrata nella storia la prima alla Stazione Centrale di Milano con il pubblico seduto sulle scalinate, così come il debutto al Teatro della Pergola di Firenze con oltre la metà dei paciosi abbonati che si alza indignata agli ennesimi «figa» e «spompì» e «inculà» e se ne va protestando. Nei trentadue anni passati da allora le rappresentazioni di In exitu si contano sulle dita di una mano, un testo difficile da interpretare e ancora più difficile da far digerire al pubblico.

Ci riesce alla perfezione Roberto Latini, visto sul palco del Civitafestival di Civita Castellana lo scorso 5 settembre, con una produzione che porta i nomi di due protagonisti assoluti della postavanguardia italiana, profondamente legati alla scrittura di Giovanni Testori di cui si sono fatti testimoni e interpreti immediatamente dopo la morte del drammaturgo nel 1993, Sandro Lombardi e Federico Tiezzi. La scelta della Compagnia Lombardi – Tiezzi di affidare a Roberto Latini il lavoro di Testori appare in qualche modo naturale se si guarda alla scena teatrale italiana contemporanea. In questi anni, Roberto Latini ha spostato l’asse del teatro riappropriandosi di una parola che era divenuta territorio di caccia di un teatro di narrazione ormai esausto, incarnandola e ricreando così le condizioni di una scena in cui non si narra, ma si è. Latini, che qui adatta, dirige e interpreta, come sempre si avvale del lavoro di Fortebraccio Teatro, ovvero le luci di Max Mugnai e il suono di Gianluca Misiti. Quello che ne esce è una perturbazione di un’ora e dieci minuti.

Roberto Latini
Roberto Latini – In exitu – Ph. Beatrice Banditelli

La scena è scarna, il palco è ricoperto di materassi, davanti, una rete da tennis afflosciata e sul proscenio un binario che rimanda alla stazione, luogo di passaggio, transire ad vitam. Latini emerge dall’ombra tra teli bianchi mossi dal vento, come sudari pronti ad accogliere il cadavere di una morte annunciata. Pantaloni neri, t-shirt e scarpe da ginnastica, sul braccio una fascia nera come un segno di lutto o un laccio emostatico per il buco. In mano tiene un’asta con microfono, che è bastone, stampella, spada, siringa. Il microfono amplifica la sua voce e arricchisce la varietà delle sue sperimentazioni sonore, i cambi di timbro e di intonazione. La parola si fa irridente, strascicata, stridula, cantilenante e poi disperata e poi profonda e viscerale come se emergesse da un buco nero, alle origini della sua angoscia. Latini non costruisce il personaggio di Riboldi Gino, ma incarna la parola testoriana nel suo corpo, un corpo che suda, sputa e lacrima, e attraverso di esso ce la rimanda.

Salta subito qui agli occhi la differenza con l’interpretazione di Branciaroli: Latini si muove, si muove continuamente, incerto barcollando. L’intuizione registica dell’uso dei materassi, che rimandano alla lascivia del mestiere di Riboldi Gino, il marchettaro, gli permette soprattutto di evitare la costruzione artificiosa del passo instabile del drogato per sentire davvero e quindi vivere il disagio dell’eroinomane consumato. Nel suo adattamento viene tagliata via la continua ripetizione di parole oscene che caratterizza il romanzo, Latini ne seleziona solo alcune, quanto basta per rendere lo schifo che il Riboldi prova verso se stesso. Non sembra interessato alla provocazione della materia narrata, ma alla morfologia del plurilinguismo testoriano. La sua provocazione, ma più che una provocazione una sfida, si materializza alla fine sottoforma di una gigantesca, «tutankamica» pallina da tennis che lo avvolge e lo ingloba. Quella pallina da tennis è per noi, seduti nel buio della sala dall’altra parte della rete malandata di un’ideale campo da tennis in cui si gioca la partita. Quella pallina dice voi avete udito, forse, avete persino sentito, adesso è il vostro turno, adesso spetta a voi giocare al tragico gioco dell’esistenza. Io vi passo la palla.

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