È uscito ieri nelle sale italiane ed è già in testa al box office con un incasso di un milione di euro. Il film che ha vinto il Leone d’oro all’ultimo Festival di Venezia, guadagnandosi 8 minuti di standing ovation, è il racconto dell’uomo prima di Joker, dell’uomo che diventa Joker, cui Joaquin Phoenix dà corpo in una prova attoriale memorabile.
Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) è un aspirante comico che lavora come pagliaccio nelle strade di una Gotham City sporca e invasa dai topi di inizio anni ’80. Vive in un appartamento fatiscente con la madre Penny (Frances Conroy) di cui si prende cura e con la quale condivide una dipendenza dalla televisione e una venerazione per il presentatore Murray Franklin (Robert De Niro) e per il suo Late Night Show, sul cui palco Arthur sogna un giorno di esibirsi.
Affetto da un non precisato disturbo mentale che si manifesta con attacchi di risate isteriche e incontrollate, Arthur è in cura da una psicologa dei servizi sociali e assume sette diversi farmaci per tenere a bada (per quanto sia possibile) la sua malattia. Ogni giorno è preda di angherie e soprusi da parte dei cittadini di una Gotham sempre più incattivita e piena di ingiustizie sociali, per risolvere i quali il ricco Thomas Wayne si candida a sindaco. Verso il padre del futuro Batman, per cui ha lavorato 30 anni prima, Penny nutre un attaccamento morboso, gli scrive ogni giorno sperando di ricevere da lui un aiuto economico per sé e per suo figlio. Un aiuto che non arriva.
Intanto, Arthur, a cui vengono tolti farmaci e assistenza psichiatrica da parte di un’amministrazione indifferente ai problemi dei più disagiati, scivola sempre più nell’oscurità. L’unica speranza sembra essere una giovane madre (Zazie Beetz) che vive nel suo stesso palazzo con cui un giorno l’uomo scambia uno sguardo di simpatia. Ma, a un certo punto, dopo l’ennesima violenza subita, qualcosa nel precario equilibrio di Arthur si rompe definitivamente dando vita a una escalation di violenza che rappresenta un punto di non ritorno. Nasce così il personaggio di Joker, l’idolo delle folle inferocite di Gotham in cerca di vendetta.
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È difficile attribuire a questo film l’etichetta di cinecomic, Joker è piuttosto un ritratto crudo e viscerale di una personalità malata. Il film è costato 55 milioni di dollari, un budget piuttosto basso rispetto alla media dei cinecomics. Mancano i grandi effetti visivi dei film Marvel (Avengers: Endgame aveva un budget di 356 milioni di dollari), mancano la Batmobile e il Batpod e tutte le sofisiticate attrezzature che permettono a Bruce Wayne di diventare Batman. Qui c’è solo un uomo che sprofonda negli abissi della sua malattia mentale.
Con la trilogia di Christopher Nolan si era già attuata quella discesa nella realtà dell’eroe dei fumetti che si muoveva in una Gotham sempre più vicina alla vera New York. In questo senso, a guardare bene l’universo comics, Batman è il personaggio che meglio si addice a questa transizione, essendo di fatto un uomo, a differenza (pensando ai personaggi più importanti della DC) di Wonder Woman che è una semidea e di Superman, un supereroe proveniente da un altro pianeta (“Superman è nato Superman” diceva Bill in una battuta memorabile scritta da Tarantino).
Il film di Todd Phillips segue la stessa direzione realistica: Joker non è un villain, Joker è un uomo, e nel suo girare per la città covando una rabbia sempre crescente somiglia molto più al Travis Bickle di Taxi Driver (a cui si ispira) che alla nemesi di Batman. E certamente il Joker di Joaquin Phoenix deve molto più all’impronta umana conferitagli da Heath Ledger che alla maschera di Jack Nicholson.
Certo, The dark knight era un film su Batman e non c’era spazio per un approfondimento del personaggio Joker ma è stata probabilmente la straordinaria interpretazione di Heath Ledger (che gli è valsa un meritato oscar postumo) a lasciare in noi spettatori la voglia di saperne di più su questo personaggio, di conoscerne le origini misteriose. Origini che non vengono indagate nel fumetto della DC, ma che Todd Phillips e Scott Silver hanno creato ex novo con la sceneggiatura di questo film.
Qui a essere oscuro non è un cavaliere, ma l’anima di un uomo in frantumi. La fotografia cupa di Lawence Sher e la scenografia di Mark Friedberg creano l’ambiente degradato, su cui domina un’atmosfera malata, della Gotham City del 1981, che ricorda molto da vicino la New York degli anni ’70 e ’80 già vista in molte pellicole firmate dai registi della New Hollywood. La regia di Todd Phillips fa quello che deve fare per la riuscita di un film come questo, ovvero rimanere incollata al suo protagonista, regalandoci dei primi piani di straordinaria intensità.
Lo sguardo di Phoenix, il cambio repentino di espressione e il suo corpo magro e contorto (l’attore ha perso oltre 20 Kg per questo ruolo) sono gli strumenti con cui riesce a trasmettere allo spettatore quel senso di inquietudine e di imprevedibilità che si provano di fronte al disturbo mentale, e sono molto più efficaci della risata isterica che ne doveva essere il tratto distintivo. Phoenix dà il meglio di sé negli sguardi silenziosi che rivolge al suo idolo televisivo, pieni di ammirazione e speranza e inadeguatezza, e nei suoi sorrisi timidi che sul palco cercano l’approvazione del pubblico nella vana speranza di essere finalmente capito.
La sua è la follia di un uomo alienato, uno che trova divertente barzellette che nessuno capisce ed è convinto di essere un comico ma non fa ridere nessuno. Lo scollamento dalla realtà è molto evidente e si ha l’impressione che il regista spieghi fin troppo: non abbiamo bisogno di avere ulteriori conferme della natura immaginaria di certe scene, sappiamo che è pazzo, e lo sappiamo dalla prima lunga inquadratura in cui è colto da uno dei suoi attacchi di risa incontrollate che chiariscono subito la statura del’attore Joaquin Phoenix.
Il suo agire per il male è sì frutto dell’esasperazione, delle angherie, delle ingiustizie che subisce da parte dei suoi concittadini ma la follia che lo spinge è già tutta dentro di lui. Non è un essere innocuo che arriva a uccidere l’ennesimo tizio colpevole dell’ennesimo sopruso (anche se è questo l’episodio che scatena la sua rabbia) è un maniaco represso e frustrato che nell’omicidio trova finalmente la sua dimensione guadagnandosi una folla di ammiratori che, finalmente, lo applaude. Udire il dolce suono degli applausi rivolti a lui è tutto ciò cui ha sempre aspirato, cresciuto come è nel mito della televisione. È questo il suono che dà la misura del successo in una società che al raggiungimento del successo è rivolta.
A chi non ce l’ha fatta, ai poveri, agli emarginati, a quelli costretti a vivere tra l’immondizia e i topi e a guardare dal basso verso l’alto gli uomini ricchi e vincenti come il magnate Thomas Wayne (per un attimo gli Wayne sembrano quelli cattivi), non resta che reagire, arrabbiarsi, unirsi intorno al Joker, all’ultimo degli ultimi che è diventato simbolo di una vendetta di classe senza cercarlo.
È lo stesso Arthur Fleck a dire a Murray che il suo non è un atto politico, come, a mio avviso, non lo è (se non in parte) il film di Phillips. La rabbia sociale è sempre in sottofondo, nei telegiornali che continuamente parlano di una città in totale degrado, e c’è il riferimento all’indifferenza dello Stato che se ne frega di Arthur e di quelli come lui, toglie i finanziamenti ai servizi sociali e lo priva delle medicine innescando in qualche modo la bomba. Ma è un aspetto che non costituisce il soggetto principale del film, ne rappresenta il contesto. Qui il soggetto principale è solo Arthur Fleck e la sua tragedia personale di uomo rifiutato, deriso e abusato, pazzo di una pazzia che in quel contesto si alimenta ma che già c’è.
Il film è stato accusato di incitare alla violenza, soprattutto negli Stati Uniti afflitti dalla piaga degli stragisti solitari, un paese in cui chiunque può armarsi e uccidere gli altri per un qualche senso di giustizia e di vendetta. A mio avviso, Joker non incita alla violenza, Joker è un film violento. Non perché ci mostri immagini particolarmente cruente (siamo abituati a ben altro) ma perché violenta è la natura dell’uomo che si ritrae, quasi palpabile in ogni fotogramma.
Raramente si è visto un film tanto dipendente dal suo protagonista, le scene in cui Phoenix non è presente si contano sulla punta delle dita e la macchina da presa sembra subire la forza di gravità emanata dal suo corpo. La macchina gli ruota attorno, ci balla insieme, si sofferma sui dettagli del suo volto, su quella cicatrice che è dell’attore e che diventa del personaggio. È un’aderenza totale, noi siamo con lui, dentro di lui, dentro la sua testa. La violenza del film Joker è tutta lì.
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