Cinema

Judas and the Black Messiah: Fred Hampton e il potere della parola

In attesa delle grandi uscite al cinema previste per settembre, su tutte Dune di Denis Villeneuve e il nuovo 007 previste rispettivamente per il 16 e il 30 prossimi, diamo un’occhiata alle migliori offerte proposte dalle grandi piattaforme streaming. Su Now TV (e su Sky) troviamo uno dei film candidati agli ultimi oscar e vincitore di due statuette, Judas and the Black Messiah, disponibile dal 25 agosto.

Il Messia nero e il suo Giuda

Judas and the Black Messiah, diretto da Shaka King, è basato su eventi realmente accaduti, quelli legati all’uccisione di Fred Hampton, capo delle Pantere Nere nello Stato dell’Illinois. Hampton fu assassinato, a soli 21 anni, il 4 dicembre del 1969 in un’azione congiunta di FBI e polizia di Chicago, perché considerato una pericolosa minaccia non tanto per la sicurezza nazionale ma più generalmente per la bianca “american way of life”. L’allora capo dell’FBI J. Edgar Hoover, qui interpretato da Martin Sheen, nel film lo chiama il Messia Nero. Un profeta della rivoluzione, un trascinatore di folle, tradito anche lui dal suo Giuda.

Il Giuda della storia è William O’Neal che tradì il suo capo svolgendo un ruolo importante, come informatore dell’FBI infiltrato nel gruppo delle Pantere Nere, anche ai fini della pianificazione del raid che lo uccise. Il film comincia con l’unica intervista rilasciata da O’Neal alla PBS nel 1989, in cui spiega il suo coinvolgimento nei fatti, in seguito alla visione della quale si suicidò. È un bravissimo Lakeith Stanfield a interpretare questo Giuda nero, riuscendo a rendere la complessità di un personaggio non pavido ma viscido, diviso tra l’attaccamento alla causa e alla carismatica figura del suo leader e la volontà di evitare la prigione, lui ladruncolo di auto, criminale comune tenuto sotto scacco dall’FBI con la promessa dell’impunità.

L’FBI e la polizia qui ne escono malissimo, nonostante le iniziali apparenti buone intenzioni dell’agente Roy Mitchell (un sempre convincente Jesse Plemons): un manipolo di bianchi, a partire dal mefistofelico capo Hoover, reazionari e razzisti disposti a tutto pur di difendere il loro dominio sulle classi subalterne. Nel film loro sono il nemico, non per il loro essere bianchi ma per il loro rappresentare l’ordine costituito attaccato caparbiamente ai propri privilegi.

Perché il tentativo che viene fatto in Judas and the Black Messiah per rendere onore alla figura di Fred Hampton è quello di sottolineare la sua battaglia per l’unione delle forze di tutti i soggetti discriminati, non solo neri ma anche bianchi e ispanici, nel segno di una rivoluzione di stampo socialista. Hampton riuscì a farlo creando la multiculturale Coalizione Arcobaleno, grazie al suo straordinario carisma e a una sopraffina arte oratoria in grado di unire quello che lui chiamava, con una parola che nel film torna sempre (insieme a “rivoluzione”) “the people”, il popolo. Le stesse qualità che lo avevano portato giovanissimo a diventare uno dei punti di riferimento nazionale del Partito delle Pantere Nere.

Daniel Kaluuya e Lakeith Stanfield in una scena del film.

Judas and the Black Messiah: sulla parola

A interpretare Fred Hampton è Daniel Kaluuya, vincitore per questo ruolo di un meritatissimo Oscar come attore non protagonista. Un lavoro enorme il suo (lui che è un attore britannico), sul linguaggio e sulla parola e sul ritmo del discorso, sempre molto sostenuto. Judas and the Black Messiah è in effetti un film sulla parola. Nonostante citi Che Guevara “belle le parole, ma l’azione è suprema”, Hampton/Kaluuya lavora innanzitutto sulla parola. Non a caso il film è pieno di citazioni, a volte intere parti di discorso. Prese da Martin Luther King, da Malcolm X, persino da Mao.

Viene subito in mente un altro recente film che racconta lo stesso periodo storico, gli anni tra il ’68 e il ’69, nella stessa città di Chicago, ovvero Il processo ai Chicago 7 di Aaron Sorkin. Anche questo è un film sulla parola, ma se la sceneggiatura dell’iper-razionale Sorkin è un meccanismo perfetto dove i dialoghi e i monologhi funzionano come meccanismi a orologeria, in Judas and the Black Messiah la parola appare meno cerebrale, sembra che arrivi da un luogo diverso dal cervello: dalla pancia, dalle viscere. Non che il film indugi particolarmente sull’elemento emotivo, tutt’altro. È una narrazione piuttosto classica, asciutta, ferma, come le espressioni di Kaluuya in primo piano. Shaka King sa quello che vuole dire e va spedito, senza fronzoli né apologie e tantomeno pietismi.

Una scena del film.

Qui si parla di una lotta che va avanti fin dalla notte dei tempi, quella tra lo sfruttatore e lo sfruttato, quella tra chi detiene il potere e chi il potere lo subisce. Parlando dell’America, alla luce degli ultimi fatti che hanno portato alla nascita del movimento del Black Lives Matter, sembra che questa lotta non debba finire mai, che sia destinata a durare in eterno. A ripetersi di generazione in generazione come un loop. Come nel bel cortometraggio Premio Oscar 2021, Due estranei (Two Distant Strangers), dove un ragazzo nero è condannato ogni giorno a morire per mano di un poliziotto bianco, qualsiasi cosa faccia, qualsiasi tentativo di mediazione metta in atto.

Se nelle strade gli afroamericani lottano ancora contro razzismo e soprusi, nel cinema la loro voce comincia a farsi sempre più autorevole. Registi come Barry Jenkins, Jordan Peele, Ryan Coogler (tra i produttori di Judas and the Black Messiah), Ava DuVernay e lo stesso Shaka King sono alcuni degli autori più interessanti di questa rinascita che sa tanto di rivincita. I loro film affrontano i temi sociali ma i loro protagonisti non sono solo vittime. Alcuni dei registi sopracitati hanno portato una ventata di aria fresca nel loro genere, si pensi a Get Out per l’horror o a Black Panther per i film sui supereroi. In questo panorama non si può non includere ovviamente Spike Lee, che ha messo a segno con BlackKlansman l’ultimo colpo da maestro. Lui resta il più grande, ma è in buona compagnia.

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