“Guardate fuori durante il viaggio e vedrete il vero volto dell’America”, il manifesto di La ferrovia sotterranea (The Underground Railroad), serie capolavoro diretta da Barry Jenkins e tratta dal romanzo Premio Pulitzer di Colson Whitehead è tutta qui, in questa battuta che il capo stazione della Georgia rivolge agli schiavi fuggitivi Cora e Caesar all’inizio del loro lungo peregrinare in cerca della libertà. La ferrovia sotterranea è un’opera epica, per la sua volontà di custodire e raccontare la memoria di un popolo, in cui l’elemento poetico è affidato alla regia potente e visionaria del premio Oscar Barry Jenkins (Moonlight, Se la strada potesse parlare); ed è un’opera antologica, rappresentativa delle tante realtà che hanno fatto l’America e che ancora la abitano. Una serie importante, dura, imperdibile.
La ferrovia sotterranea racconta la storia di Cora (Thuso Mbedu), giovane schiava della piantagione dei Randall, in Georgia. Siamo nell’America della prima metà dell’800, dopo l’Indipendenza e prima della Guerra di Secessione: negli Stati del Sud la schiavitù è legge. Abbandonata dalla madre Mabel (Sheila Atim) quando era ancora una bambina, Cora è cresciuta nella dura vita di una piantagione di cotone dove le violenze e i soprusi sono la regola, soprattutto per una ragazza orfana. Gli anni trascorsi hanno alimentato la sua rabbia verso la madre, l’unica schiava della piantagione che è riuscita a fuggire e intorno alla quale si è creata una sorta di aura mitica. Cora è rassegnata all’idea che la piantagione sia il suo destino, a essa non c’è scampo.
Quando il più mite proprietario della piantagione muore, l’eredità passa al giovane fratello, che vi comincia ad applicare i suoi brutali metodi. Dopo aver assistito alla punizione inflitta a uno dei suoi compagni, arso vivo per aver tentato di scappare, lo schiavo Caesar (Aaron Pierre) si decide a organizzare la fuga e convince Cora a scappare con lui. Si racconta di una ferrovia sotterranea che dagli Stati del Sud conduce gli schiavi fuggitivi verso il Nord abolizionista, di una rete di assistenza ben strutturata composta da neri e da bianchi solidali alla loro causa. Caesar e Cora riescono a raggiungere la stazione della Georgia e a partire in cerca di libertà.
Comincia così un viaggio attraverso il Sud, South Carolina, North Carolina, Tennessee e poi su verso l’Indiana. Cambiano i paesaggi, cambia la natura e i metodi con cui i bianchi applicano le loro politiche discriminatorie, dalle più violente alle più subdole. Facciamo conoscenza con la varietà dei tipi umani che hanno creato l’America. Ma per Cora e Caesar non c’è pace, sulle loro tracce si muove Arnold Ridgeway (Joel Edgerton), il famigerato cacciatore di schiavi, accompagnato da Homer (Chase W. Dillon), il piccolo schiavo che stranamente sembra stare dalla parte dei nemici del suo popolo. Ridgeway ha ancora un conto aperto con la madre di Cora, l’unica preda che è riuscita a sfuggirgli, e non ha intenzione di farsi scappare anche lei.
La geniale intuizione di Colson Whitehead è stata quella di trasformare la rete di assistenza e di percorsi sicuri per gli schiavi in fuga verso gli stati del Nord e soprattutto verso il Canada, simbolicamente denominata appunto Ferrovia Sotterranea e realmente esistita in America in quegli anni, in una vera e propria ferrovia, con tanto di carrozze accoglienti, capistazione e registri di carico. È questo l’elemento fantastico di un’opera di fiction che racconta di fatti storici e delle ingiustizie e delle indicibili torture che gli afroamericani sono stati costretti a subire nel corso dei secoli in una terra pure autoproclamatasi libera. La libertà era un privilegio per soli bianchi e la Dichiarazione d’Indipendenza, che non a caso nella serie si cita diverse volte, non si applicava agli schiavi neri, considerati come oggetti, esseri senza identità né storia (loro stessi ignoravano persino la propria età).
I manifesti di carico della ferrovia sotterranea contengono le testimonianze degli schiavi in fuga, un modo per custodire la memoria di un popolo la cui vita si esauriva nei campi di cotone, irrilevante come un mucchietto di polvere portato via dal vento. Gli sguardi dei tanti uomini e donne che fissano l’obiettivo di Barry Jenkins, che guardano noi e ci interrogano, sono lì a testimoniare la loro esistenza, a ricordarci che sono vissuti. Una Antologia di Spoon River afroamericana. Ma sono molti gli spunti che regala questa serie, che va guardata con calma per coglierne tutti i significati.
L’elemento fondamentale della ferrovia che ferma di stazione in stazione e ci fa conoscere di volta in volta nuove realtà con le quali Cora deve fare i conti, è l’elemento avventuroso, di scoperta. Cora è come Ulisse, ma in fuga dalla propria terra di origine, in cerca di libertà e di riappacificazione con la figura materna; Cora è come Gulliver (I viaggi di Gulliver è il libro che nella serie legge sempre Caesar), ma nel suo viaggio non c’è spazio per l’ironia, La ferrovia sotterranea non è una parodia, piuttosto un attraversamento dell’inferno in dieci tappe. I dieci episodi, tutti diretti da Jenkins, raccontano diverse realtà, alcuni si reggono da sé come capitoli indipendenti. La durata è discontinua, ci sono episodi che durano più di un’ora e altri neppure venti minuti; spesso sono scanditi dal cambio di paesaggio e hanno per titolo il nome dello Stato in cui sono ambientati.
Superlativo il lavoro dello scenografo Mark Friedberg e del direttore della fotografia James Laxton nel ricreare questi mondi, dagli assolati campi di cotone della Georgia alla desolazione del Tennessee in fiamme, dal luminoso e colorato South Carolina progressista all’oscurantista North Carolina con il villaggio di casette di legno abitate dalla comunità di cristiani integralisti, fino al bucolico Indiana. Una mappa di questa parte dell’America che la stessa Cora va tracciando, associando gli Stati che ha attraversato con i nomi delle persone che ha lasciato indietro. Una mappa della morte, in varie forme, raccontata nello stile di Barry Jenkins, tempi dilatati, lunghe carrellate, “quadri” perfettamente composti. Ciò che ne esce, però, non è una estetizzazione della sofferenza ma una testimonianza accorata di ciò che realmente fu, al di là dell’ucronia.
Barry Jenkins ci mostra alcune immagini quasi insostenibili, di una potenza devastante; per chi l’ha vista e per chi la vedrà sarà difficile dimenticare la soggettiva dello schiavo arso vivo, le faville che lo circondano, la vista che gli si annebbia, l’immagine dei suoi torturatori che si sfoca e la palpebra che si abbassa, lentamente, fino a chiudersi. Barry Jenkins non ci risparmia la durezza delle immagini ma le utilizza con intelligenza, senza farne pornografia. Usa la scena dello schiavo bruciato vivo nel primo episodio come un capitale emotivo su cui investire: negli episodi successivi (che non sono certo teneri) le peggiori atrocità saranno solo raccontate, non ha bisogno di farcele vedere, bastano le parole per riportare subito quell’orrore di fronte ai nostri occhi.
Ma La ferrovia sotterranea non è l’elenco delle ingiustizie subite dai neri, ha l’ambizione di raccontare una nazione, la sua genesi, l’anima profonda di quei bianchi che l’hanno fondata, la cui determinazione ha trovato sostegno nella convinzione fideistica di essere un popolo eletto, portatore di un “destino manifesto”. Quest’anima nella serie ha le sembianze di Ridgeway, il cacciatore di schiavi. Quello che gli indiani chiamavano Grande Spirito, concetto a cui il padre credeva fermamente intendendolo come capacità di comprendere e rispettare ogni creatura vivente, per Ridgeway è lo spirito dell’America, “l’imperativo americano” ovvero “conquistare, costruire e civilizzare”. Questa è la missione, che è loro per diritto divino, dei bianchi venuti dal Vecchio Mondo per conquistare il Nuovo, attraverso l’annichilimento delle razze considerate inferiori (neri e indiani). Un razzismo endemico quindi, fondativo, con cui l’America come sappiamo fa ancora i conti.
La ferrovia sotterranea è una serie che non si dimentica, come non si dimenticano i tanti volti che la popolano, Jasper, Lovey, Mabel, Caesar, Homer (inquietante personaggio, straordinario piccolo attore Chase W. Dillon) e soprattutto Cora, con lo sguardo da sotto in su e le labbra sempre imbronciate di chi si aspetta di ricevere il male in ogni momento eppure ogni volta ne resta sorpreso.
Su Prime Video dal 14 maggio.
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