Non è una novità che Frida Kahlo sia diventata negli ultimi anni una icona globale. Murales, abiti, scarpe, gadget, tazze, gioielli, coperte, cuscini, bambole, tatuaggi e emoji: le riproduzioni dei suoi quadri e la sua immagine sono ovunque. Certo, il suo volto, con le sopracciglia folte quasi unite e la peluria sopra le labbra, il suo abbigliamento e le sue acconciature che richiamavano i costumi tradizionali delle donne messicane, si prestano particolarmente alla stilizzazione. Bastano pochi tratti essenziali per delinearne l’immagine inconfondibile, capace di rimandare a tutto un sistema di valori e di passioni con cui viene identificata. Intorno alla sua figura, le persone, e in particolare le donne, sentono di potersi unire. Frida Kahlo è un simbolo (o l’illusione di un simbolo).
Le ragioni dell’interesse che suscita la sua figura sono piuttosto facili da individuare e vengono fatte generalmente risalire agli anni ’60 e ’70 del secolo scorso con la nascita dei movimenti di emancipazione femminile e di liberazione dei costumi. Le donne che affermavano se stesse vedevano in Frida Kahlo un modello di autodeterminazione e di libertà. Frida Kahlo l’artista. Frida Kahlo la femminista. Frida Kahlo la pasionaria. Frida Kahlo la bisessuale. La donna impegnata. La moglie tradita. Chiunque può tentare di rintracciare una parte di se stesso nei tratti della sua personalità e trarre insegnamento e forza dalla sua biografia travagliata ormai nota. L’attrazione che emana dalla sua figura è incontestabile, ma qui non si vogliono indagare i motivi che stanno dietro la sua trasformazione in icona, ma tentare di capire cosa facciamo quando compriamo un paio di scarpe firmate con l’immagine dei suoi quadri stampati sopra.
La perdita di funzionalità dell’oggetto che smette di essere merce e diviene status symbol è uno degli avvenimenti fondamentali che accompagnano la nascita della società dei consumi. Noi non compriamo più una tazza perché ci serve per bere il cappuccino la mattina, la compriamo perché ci piace il suo colore, perché starebbe bene sulla mensola della cucina o perché c’è stampata sopra l’immagine del volto di Frida Kahlo. E comprando la tazza con il volto di Frida Kahlo entriamo a far parte di un gruppo che si riconosce nei valori che quell’immagine veicola, una categoria sociale che in questo modo si distingue dalle altre. La tazza (o il paio di scarpe) da oggetto d’uso diviene segno.
Il filosofo e sociologo Jean Baudrillard ne La società dei consumi afferma (i corsivi sono dell’autore) “… se si ammette di definire l’oggetto di consumo attraverso la relativa scomparsa della sua funzione oggettiva (utensile) a vantaggio della sua funzione di segno, se si ammette che l’oggetto di consumo si caratterizza per una specie di inutilità funzionale (quel che si consuma è precisamente qualcosa di diverso dall'”utile”), allora il gadget è proprio la verità dell’oggetto nella società dei consumi. E a questo titolo tutto può diventare gadget e tutto lo è potenzialmente.”
Cosa succede quando è un’opera d’arte a diventare gadget? Sono passati oltre cento anni da quando Marcel Duchamp cambiò irreversibilmente l’arte e la riflessione su di essa con i suoi Ready-made, ovvero oggetti di uso quotidiano prelevati dal loro contesto funzionale per assurgere allo status di opere d’arte. In Duchamp uno scolabottiglie diviene Lo scolabottiglie, una fontana diviene Fontana. L’oggetto comune diviene oggetto artistico.
Pochi anni dopo la pop art (in particolare con le operazioni di Andy Warhol)in una logica consumistica perfettamente allineata con lo spirito del tempo demolisce ogni idea di artigianalità dell’oggetto e opta per una produzione industriale e seriale rompendo definitivamente con l’idea di trascendenza che fino ad allora aveva dominato il modo con cui si guardava l’arte. Non c’è più niente di sacro nell’opera d’arte, essa non rimanda più a un aldilà, si secolarizza, perde il suo valore culturale e si appiattisce in un presente banale senza significare altro da sé. Non solo, ma nell’oggetto in sé non si riconosce maggior valore rispetto alla sua immagine, essi sono intercambiabili. In questo modo si esteriorizza l’esperienza artistica e si equipara l’oggetto d’arte a qualsiasi altro prodotto da consumo.
Se non ci fosse stata la pop art probabilmente non avremmo mai avuto la tazza di Frida Kahlo.
L’operazione portata avanti dagli artisti della pop art pur rompendo con la tradizione è ancora una riflessione sull’arte e nell’ambito artistico si inserisce. Senza contare il fatto che per molti è sempre stata comunque un’arte di élite. Quello che sta accadendo oggi, invece, nel modo in cui si guarda all’arte e alla figura di Frida Kahlo (ma si potrebbero portare molti altri esempi) ha più a che fare con qualcosa che nel discorso artistico si inserisce ma in contrappunto, ovvero il Kitsch.
Kitsch è un termine che usiamo spesso per definire prodotti (per prodotti non si intende solo oggetti materiali ma qualsiasi altro bene di consumo) vistosamente di cattivo gusto, paccottiglia, pacchianerie. Indagato nel corso degli anni da sociologi e semiologi come Umberto Eco, Gillo Dorfles e il già citato Baudrillard, il Kitsch è molto più di un semplice aggettivo, è una categoria estetica. Una categoria di difficile definizione perché varia con le oscillazioni del gusto e con le operazioni che di volta in volta si compiono sugli oggetti d’arte tanto che, come spiega Dorfles in Nuovi miti nuovi riti, diviene Kitsch “la Gioconda di Leonardo usata come réclame di medicinali” ma può anche accadere che “il soprammobile decisamente di gusto desueto, anzi esplicitamente Kitsch, [venga] elevato al rango di sofisticata preziosità per la sua inclusione in una raccolta di pezzi rari”.
Certo è che il Kitsch è profondamente legato alla società dei consumi, alla riproduzione in serie, alla proliferazione degli oggetti, e può annidarsi ovunque. Secondo Baudrillard (La società dei consumi) il Kitsch si definisce come “pseudo-oggetto, vale a dire come simulazione, copia, oggetto artificiale, stereotipo, come povertà di significato reale e sovrabbondanza di segni, di riferimenti allegorici, di connotazioni disparate, come esaltazione del dettaglio e saturazione per mezzo dei dettagli.”
Per Umberto Eco che ne indaga la struttura in Apocalittici e integrati, il Kitsch è definibile come “prefabbricazione e imposizione dell’effetto”. In entrambi i casi si sottolinea in esso una certa carica di sentimentalismo. Ancora Dorfles non si limita a parlare solo dell’oggetto di cattivo gusto ma anche “del soggetto che fruisce con cattivo gusto qualsivoglia oggetto”. In questo tipo di fruitore la “distanza estetica” necessaria a valutare l’opera d’arte viene repressa e “l’opera d’arte non è più intesa come il veicolo d’un valore […] ma come stimolo d’una personale e soggettiva commozione.” E ancora “il che equivale del resto all’interpretazione meramente contenutistica data al dramma o al romanzo, o peggio ancora al celebrato dipinto, dove il giudizio […] anziché all’effettivo valore artistico viene conferito all’elemento narrativo, aneddotico, o a qualche accidentale convergere di private vicende.”
Nel caso di Frida Kahlo, questa tendenza nella ricezione della sua arte sembra piuttosto marcata e il rischio è quello di fare torto all’artista schiacciando la sua opera sulle sue vicende private, annullandone il valore artistico. Ma anche volendo ripristinare questa “distanza estetica” come ci poniamo oggi di fronte al suo lavoro?
Il modo in cui noi oggi guardiamo alle opere di Frida Kahlo non è lo stesso con cui le guardavano i suoi contemporanei, o con cui i contemporanei di Botticelli guardavano quelle dell’artista fiorentino. Noi ci portiamo sulle spalle tutto un bagaglio sterminato di immagini e di rappresentazioni dell’opera che mutano la nostra percezione di essa. È il fenomeno che Walter Benjamin aveva ben spiegato oltre sessanta anni fa ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, per cui l’opera che viene infinitamente riprodotta perde la sua “aura” e diventa mera immagine di sé, non ha più “valore culturale” ma solo “valore espositivo”. Questo comporta un cambiamento nel modo in cui noi ci poniamo di fronte a essa, alla “ricezione nel raccoglimento” si sostituisce la “ricezione nella distrazione”.
Quante riproduzioni di “La colonna rotta” o di “Le due Frida” abbiamo visto? Possiamo ancora avvertire la presenza dell'”aura” quando a una mostra ci troviamo di fronte all’opera originale? O la saturazione del nostro sguardo e l’iperesposizione dell’opera ne hanno annullato la profondità equiparandola a qualsiasi altra rappresentazione di se stessa? Una mostra interattiva in cui all’opera si sostituisce una sua rappresentazione su grandi schermi luminosi, spesso animati, e una mostra in cui sono esposti gli originali hanno lo stesso valore in termini di ricezione?
La grande diffusione e il successo di pubblico che hanno riscontrato le mostre interattive negli ultimi tempi farebbero pensare a una risposta affermativa alla domanda. Recentemente, a Roma, la mostra Impressionisti francesi da Monet a Cézanne al Palazzo degli Esami è stata prorogata di mesi rispetto alla data di chiusura pianificata, tanto grande è stato l’interesse suscitato nel pubblico dagli enormi schermi su cui giganteggiavano i capolavori impressionisti. Lo stesso successo avuto in precedenza anche da Van Gogh Alive, sempre una mostra interattiva e sempre al Palazzo degli Esami. Ma si potrebbero fare ancora molti esempi di mostre interattive, ma anche di musei virtuali, che stanno cambiando ulteriormente il nostro approccio all’opera d’arte.
È invece un mix di esposizione multimediale e di documenti originali la mostra su Frida Kahlo inaugurata il 12 ottobre allo Spazio Eventi Tirso di Roma, Frida Kahlo: il caos dentro. Una mostra sensoriale che vuole accompagnare il pubblico nel mondo della grande artista messicana, attraverso le tante fotografie che la ritraggono e grazie alla riproduzione della sua camera da letto e del suo studio, del giardino della Casa Azul di Coyoacán, dei suoi quadri, del suo diario, dei suoi abiti e persino dei suoi busti. Alcune lettere originali e la strumentazione del fotografo Leo Matiz che la immortalò in vari momenti della sua vita sono alcuni degli oggetti originali presenti.
Un discorso a parte merita il quadro “Piden aeroplanos y les dan alas de petate” che si trova alla fine del percorso espositivo e la cui attribuzione a Frida Kahlo è ancora discussa (questo quadro è la copia di un piccolo olio su metallo che la pittrice dipinse nel 1938 la cui unica testimonianza rimanente è una fotografia in bianco e nero di Lola Alvarez Bravo).
La mostra, che rimarrà aperta fino al 29 marzo 2020, ha già fatto registrare una grande affluenza di pubblico ma pone di nuovo il problema della ricezione dell’opera d’arte e dell’esperienza della “cosa” originale.
Se il concetto di unicità dell’opera d’arte non ha più senso in un mondo in cui tutto è riproducibile infinite volte e facilmente reperibile e visionabile online, è pur vero che quelle opere, quegli originali di Van Gogh di Monet e di Frida Kahlo esistono, sono stati creati con una tecnica che è la stessa di Giotto secondo un’idea di arte che, pur con i dovuti distinguo, è ancora quella tradizionale. Allora ci si domanda perché si continuino ad allestire mostre che, attraverso la multimedialità, si propongono di creare surrogati (che molto spesso al Kitsch fanno pensare) tesi a sostituire l’esperienza dell’opera d’arte originale anziché porre l’attenzione e dare visibilità alle nuove forme d’arte che con quei linguaggi parlano e in quella multimedialità sono state create.
Guardando a queste mostre multimediali allestite per creare un’esperienza immersiva viene da pensare che sia il dispositivo, e non l’opera d’arte, il vero oggetto della mostra: la ricerca della spettacolarizzazione e la promessa di un’avventura sinestetica capace di attrarre il grande pubblico.
Tutto è rappresentazione spettacolare della realtà e per noi che ne siamo immersi è difficile capire dove finisce l’una e comincia l’altra. Forse non ha più neanche senso cercare di farlo.
E mentre continuiamo a contornarci di oggetti (o pseudo-oggetti) si consuma il nostro completo distacco dal reale.
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