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Napoli Musica ininterrotta, 100 anni dell’Associazione Scarlatti

Come tutto è cominciato,100 anni dell’Associazione Scarlatti

Era il giorno di Santa Lucia ed avevo appena finito una conferenza all’Università di Umea in Svezia, quando, una processione di studenti vestiti di bianco ciascuno con una candela accesa in mano, attraversavano i corridoi della facoltà intonando la nostra canzone.  Sul mare luccica l’astro d’argento…. la musica che durante il Risorgimento diventò il primo testo napoletano tradotto nella lingua della agognata Unità.

Come è possibile? Come hanno fatto queste note a migrare dal golfo di Santa Lucia al freddo del nord Europa? Chiesi subito ad un collega di tradurmi il testo. Si trattava di un canto religioso che celebrava il ritorno della luce come grazia divina. Certo, se i napoletani celebrano una luna scintillante sull’acqua è assolutamente normale che in Svezia si celebri il miracolo di una luce che torna come una benedizione. Ma come sia migrata la musica, perché, chi l’avesse portata fin lassù sarebbe rimasto un mistero. Mi sono venute in mente le lunghe conversazioni con Roberto De Simone a proposito del mistero della migrazione delle strutture musicali quando per conto del Parco del Gargano mi sono occupato dei cantori di Carpino, così ho pensato che il mistero dovesse rimanere tale. La musica non ha bisogno di alcuna traduzione dissi al collega, andiamo a prendere un caffè.

Proprio in quel momento squillò il telefono che si ostinava a parlarmi di musica. Era Francesca Maciocia di Scabec, la società della Regione Campania per la valorizzazione dei beni culturali, mi lanciava l’idea di voler trasformare la storia del centenario della Associazione Scarlatti di Napoli in un racconto e di aver pensato a me come autore. Che telepatia! Che sia opera di Santa Lucia? Ma Santa Lucia chi? La martire cristiana fatta uccidere dalle persecuzioni dell’imperatore Diocleziano o la sinfonia di luce che dal giorno alla notte disegna il golfo di Partenope intorno all’isola di Megaride? Poco importa. Quel canto e quella telefonata parlavano la stessa lingua, parlavano di musica come carburante di una coesione sociale di cui si rischia di rimanere a secco per mancanza di luoghi e occasioni di fruizione collettiva. Me ne offrivano una da aggiungere ai miei lavori? Bene! Fu così che la migrazione di quel canto diventò lo stimolo e lo spunto per costruire un racconto che riguarda la cultura di Napoli, che, come quel canto, è storia di migrazione. In effetti è la cultura stessa per la sua capacità di costruire civiltà è storia di migrazioni.

La musica ha costituito un forte stimolo alla speculazione filosofica occidentale fin dai primi pensatori greci, sia per la sua capacità di fascinazione, sia per la natura ambivalente che oscilla tra sensazione e razionalità, ma anche per la rilevante funzione etico-paideutica[1]. Scriveva Aristotele che la musica oltre ad avere una funzione che oggi chiameremo di intrattenimento e che lui definisce: “alleviare le fatiche”, riesce ad avere rappresentazioni vicine alla realtà come ad esempio l’ira, il coraggio, e tutti i loro opposti. Grazie a questo la musica, secondo il grande Ateniese è in grado di agire sui livelli più segreti dell’animo umano e di conseguenza disciplina ideale alla educazione dei giovani, alla coesione, al governo della polis. La Grecia Classica non era certo abituata alla musica polifonica come la intendiamo noi, non esistevano tastiere che potessero articolare accordi e strutture complesse, eppure Aristotele inquadra la musica come mezzo di socializzazione intorno a valori etici, atti a riconoscersi membri di una civiltà comune. La musica costruisce identità, è riconosciuta come patrimonio immateriale della polis. Quelle pagine sono subito diventate protagoniste della strategia per mettere in scena l’Associazione Scarlatti, perché i pensieri del grande filosofo Ateniese sulla musica sono parte del libro dedicato alla Politica. Dunque, organizzare in modo strutturato dei concerti che ripercorrano la storia della musica nella sua evoluzione moderna, educare all’ascolto di quelle strutture, insegnare le regole e quindi insegnare che senza regole la libertà non esiste significa fare politica. In cento anni questo ha fatto l’Associazione e questo volevo mettere in evidenza attraverso una rappresentazione teatrale e metaforica che usasse tutte le muse del pantheon greco a cui, in quanto moderni, avremmo potuto aggiungere a pieno titolo il cinema, la fotografia, l’animazione digitale che certo i Greci avrebbero inserito nel mousikè se le avessero conosciute. Tutte le muse insieme per parlare di musica per una mostra in cui, la musica ascolta.

Associazione Alessandro Scarlatti

La strategia

Consentitemi ora una digressione su temi cari a questa rivista per chiarire, almeno per grandi linee, cosa penso debba essere la strategia generale per progettare un percorso culturale. Oggigiorno, in piena rivoluzione digitale, parole come “innovazione”, “informazione”, “digitalizzazione”, “narrazione” sono diventate tanto comuni da essere utilizzate con significati completamente diversi con il rischio che ciascuno possa attribuire al proprio parere la patente di verità. Queste parole sono l’essenza, nel senso che ne sublimano il significato, della economia della informazione, della rivoluzione digitale e costituiscono parte del capitale semantico dei tempi che viviamo con particolare riferimento alla politica culturale nella cui sfera di competenze sono da qualche anno entrate a far parte.

Credo si abbia l’obbligo di rendere la cultura un patrimonio condiviso della maggior parte possibile delle persone. Questo non coincide affatto con il maggior numero di visitatori, ma con il maggior numero di visitatori che siano usciti diversamente da come siano entrati. Credo che chi costruisca il percorso e i punti di riflessione interni ad esso non debba sforzarsi di passare ai visitatori la sua opinione dei fatti, ma gli strumenti affinché l’opinione possa formarsi attraverso una elaborazione personale. Tale percorso non sarà uguale per tutti nei tempi, nello sforzo cognitivo, nel risultato finale. Questo non deve spaventarci. La diversità esiste ed è un vantaggio per la specie umana. Credo che come i colleghi del marketing con gli strumenti a loro congeniali si adoperano affinché il maggior numero di persone possibile venga a visitare la mostra, chi la costruisce debba occuparsi di capire come ciascuno di loro possa uscire cambiato o convinto della direzione in cui la mostra si incammina.

Si può parlare di cultura in modo specialistico, per esempio in una lezione universitaria: alto livello, lessico specialistico, pubblico motivato, sacralità del luogo deputato, oppure in televisione: lessico semplicissimo, fatti eclatanti, aggettivi roboanti dal significato sottinteso[2], frammenti di fiction come illustrazioni didascalie costruite con dialoghi semplici. Sia l’Università che la divulgazione televisiva sono strumenti efficacissimi se confinati nel medium che li ha prodotti, oggi il mondo della rappresentazione è entrato d’ufficio nel racconto culturale e lo deve perseguire con un suo linguaggio specifico senza pensare di trasportare una lezione o un programma divulgativo in altra sede perché non funzionerebbero.[3]

Chi verrà a visitare la mostra non è detto abbia la motivazione e la conoscenza di base di un esperto, per questo descrivere non basta, occorre narrare, interagire con la componente immaginaria e fantastica ed attivare un meccanismo per cui un’emozione susciti interesse che diventi la consapevolezza di aver capito una cosa in più. Questo induce una soddisfazione personale che accresce di nuovo l’interesse che diventa la spinta che alimenta ulteriormente i meccanismi del processo cognitivo. Una reazione a catena, senza chiusure aprioristiche, ma senza nulla cedere alla vuota suggestione. Lo sanno bene gli architetti gli ingegneri che per rendere accessibili le loro costruzione a tutti, anche a chi non possa salire o camminare costruiscono rampe, ascensori a norma di legge e non costruzioni esclusivamente al piano terra. Spero che la metafora sia chiara.

Lo sanno bene i medici che quando il nostro organismo non produce più un minerale di cui ha bisogno si ammala, quindi non serve somministrare dall’esterno il minerale che manca, occorre rimuovere la causa che impedisce il suo assorbimento. Ecco un esempio calzante per il museo, ecco una sfida per il mondo digitale, ecco la cura per valorizzare la cultura, rompere il meccanismo che impedisce interesse e apprendimento per quelle persone che ne abbiano bisogno, costruire terapie geniche che ripristinino il perfetto funzionamento dei ricettori interessati e non somministrare l’interpretazione dello studioso o del curatore attraverso le sue didascalie come fosse una medicina. Per generare davvero valore occorre invece dotare il visitatore degli strumenti che gli permettano di interpretare nella direzione che lo studioso ha costruito: un contesto narrativo dal quale emerga quell’esperienza che faccia salire un gradino nella conoscenza, appagati, emozionati, non indifferenti di fronte ad un momento inatteso, non messo in conto prima.

L’inatteso è un parametro essenziale del nostro lavoro. Quello che non ti aspetti rischia di farti innamorare. Ricordate il proverbio delle nostre nonne quando avete annunciato il vostro fidanzamento con quell’antipatico/a: Chi disprezza compra! Significa che l’emozione richiede tempo, analisi profonda, riflessione e la capacità di ricostruire un proprio equilibrio più avanzato dopo uno sconvolgimento, quello che John Dewey chiamava esperienza cognitiva[4] e che Aristotele chiamava thaumazein. C’è una poesia di Eduardo De Filippo che è dedicata a uno dei piatti tradizionali della domenica, il ragù. A Napoli il giorno della festa è in genere dedicato al rito della tavola, tutti insieme e tutta la famiglia. La poesia di Eduardo inizia con l’affermazione che tutti abbiamo fatto una volta nella vita, magari non solo per il ragù, ma per la polenta, per il pollo con i peperoni o per la pasta con le sarde: ‘O rraù ca me piace a me / m’ ‘o ffaceva sulo mammà. Proprio perché una volta nella vita lo abbiamo detto tutti, l’espressione merita una considerazione in più. Il ragù appartiene alla sfera del proprio gusto, quello a cui siamo stati abituati e legati da piccoli, quello con cui siamo cresciuti e quello che riconosciamo per istinto. E’ legato al sapore, ma anche ai ricordi, ai rumori, alle feste, ai regali, ai sorrisi e al giorno in cui non si andava a scuola. Si, il ragù deve essere uguale a quello che mi aspetto debba essere, perché io possa essere soddisfatto. Anche per la cultura vigono le stesse regole? No. Non andiamo in cerca di soddisfazione, ma di emozioni sconvolgenti. Si capisce facilmente che se nel mondo della cultura si fosse sempre usato il metodo del ragù della mamma e si fosse replicato all’infinito il già noto, la storia dell’arte non avrebbe mai avuto l’evoluzione che ha avuto e oggi noi non saremo qui a parlarne. Quindi ricerca delle forme e dei linguaggi dopo la rivoluzione digitale è l’unico antidoto alla riproposizione di quello che è già stato fatto e che la letteratura dimostra non poter funzionare al di fuori dei contesti nativi. Il fine di questa mostra sarà quello di aumentare il più possibile la consapevolezza dei nostri visitatori, perché l’efficacia della cultura non si misura attraverso l’audience, il numero di biglietti venduti, ma attraverso l’impatto che le sue rappresentazioni avranno. La mostra vuole essere un percorso di collegamento tra l’arte e la società per costruire mattoni idonei alla costruzione di una identità basata sulla propria tradizione, sul territorio come parte di un mosaico internazionale che figura l’intera storia dell’occidente.

La mostra, Napoli Musica ininterrotta

La mostra sulla nascita ed il centenario della Associazione Scarlatti è davvero un percorso rivoluzionario nel senso etimologico del termine, come lo fu il sogno autunnale che unì “le madri costituenti”: Emilia Gubitosi e Maria De Sanna. La stessa costruzione di un coro “in una terra di solisti” fu una sfida civile prima che musicale, la traduzione in prassi di quella “civiltà della conversazione” che ha visto Salvatore Di Giacomo e Matilde Serao protagonisti e che aveva avuto a Napoli una lunga tradizione di raccordo tra la la cultura e l’aristocrazia, tra le classi intellettuali e le classi di governo, le une insieme alle altre per scalare le vette dell’Europa di allora. I due risultati che l’Associazione Scarlatti ha ottenuto fin da subito: quello di promozione della Musica e quello della coesione sociale nella tessitura della cultura della città di Napoli sono assolutamente inscindibili nella figura di Emilia Gubitosi, anche perché la musica non potrebbe mai vivere e generare pubblico senza un contesto civile di alto profilo culturale dal quale assorbe e a cui contribuisce. Questa considerazione è stata la piattaforma sulla quale abbiamo impiantato l’idea di mostra: non una esposizione di successi, ma la messa in scena di una strategia che continua a crescere nelle mani degli eredi dei fondatori. La messa in scena di un atto rivoluzionario. L’aggettivo è stato usato dal molti degli intellettuali con cui ho avuto il piacere di conversare e le cui tesi troverete nella mostra e Nicola Rubertelli ha interpretato questa rivoluzione immergendo il percorso in un segno Picassiano inteso come archetipo di ogni rivoluzione formale.

Villa Pignatelli offre l’ambiente ideale: il piano nobile che ha ospitato la civiltà della conversazione contiene un percorso di visita i cui strumenti di racconto si integrano con l’arredamento, sono parte della villa come fossero sempre esistiti, il piano sottostante, trasformato in una installazione teatrale all’interno della quale il visitatore potrà muoversi tra immagini che evocano la creatività di una città ricca di immaginazione. Elementi tratti da scenografie teatrali estratti al proprio contesto musicale diventano sculture, archetipi, segni intorno a cui il visitatore potrà costruire il proprio percorso di conoscenza. Non tutto sarà esplicito, perché nell’arte i significati sono reconditi ed ambigui e perchè, come diceva Schopenhauer[5], “con l’opera d’arte non si deve dare ai sensi assolutamente tutto, ma solo quanto si richiede per mettere la fantasia sulla giusta via”, o come ammoniva Voltaire “il segreto per diventare noiosi è dire tutto”[6].

Emilia Gubitosi

D’altra parte la strategia sottesa dalla rivoluzione culturale è proprio questa, la capacità di ricostruire un contesto riproponendo in altra luce opere, artefatti, idee che possano rivivere e riprendere il loro posto nel grande affresco della cultura. La tecnologia aiuta molto questa riproposizione specialmente quando consente la manipolazione delle immagini e dei suoni in modo così profondo e articolato come lo conosciamo, ma non deve essere sovrapposta alla rivoluzione digitale che una visione non una tecnologia.

Mimmo Jodice Alba fucens-2008 – Collezione dell’artista

È questo il caso delle due immagini contrapposte che abbiamo fatto dialogare tra loro all’ingresso: la statua Greca segno delle origini dell’arte importata in questa terra e l’uomo che gioca a carte che abbiamo trovato dell’archivio Troncone. Tanto per cominciare la statua Greca statua non è perché è una interpretazione di Mimmo Jodice che estrae dal tempo un frammento rimasto e lo rimette in vita trasportandolo fino a noi, di fronte ancora una fotografia, un uomo che gioca a carte estratto anch’egli al suo tempo. Una mano di legno non impedisce il gioco delle carte, basta una fessura che le possa contenere e l’accessibilità alla vita lo rende come gli altri. Basta ca ce sta ‘o sole,/ca c’è rimasto ‘o mare….. anche la guerra passa, diceva la canzone che rivendica l’unicità di essere napoletani e quel signore anonimo ripreso dall’occhio esperto di un artista con la macchina fotografica forse solo come colore della rinascita dopo la guerra, rivive in un contesto diverso e accoglie il pubblico ribaltando il significato stesso della sua esistenza. In inglese esiste un verbo che è continuamente usato nella progettazione dei percorsi museali: “repurpose”, è un po’ l’essenza della rivoluzione digitale e della manipolazione delle immagini, significa riutilizzare una cosa con un significato diverso riproponendola in un contesto nuovo. Ecco è quello che abbiamo voluto fare anche con le immagini dei suonatori ambulanti essendo stati attratti dallo sguardo dolce del violinista di strada. Quando Stefano Fittipaldi, custode della vita fotografica di Napoli del tempo che fu, mi mostrò la foto ricordo che mi sono chiesto se emanasse una leggerezza ed una pace interiore perché violinista o se avesse scelto il violino per via del suo carattere innato. Ho immaginato suonasse in strada nu mutivo antico ‘e tanto tiempo fa che dal pianoforte di Di Giacomo sia migrato al violino del nostro anonimo protagonista che mai in vita avrebbe immaginato tanto.

Così per la radio d’epoca esposta come una scultura che nell’era della musica digitale ripercorre la riproducibilità tecnica della musica che le giovani generazioni danno per scontata, ma che ancora le loro nonne non conoscevano. Così pure il teatrino e l’intero apparato scenografico che Nicola Rubertelli ha voluto concepire sottolineando l’aspetto rivoluzionario di Donna Emilia e della Scarlatti. Il tratto Picassiano rimanda alle avanguardie del 1919, ma evoca in sé tutte le avanguardie inclusa la musica contemporanea, inclusa l’educazione all’ascolto, inclusa la tradizione barocca riproposta oggi come origine di quelle stesse improvvisazioni o dissonanze che in molti considerano nuove.

Come il piano di sopra può essere considerato l’indice e l’abstract della mostra,  il piano di sotto è il luogo dell’approfondimento. Molto difficilmente si potrà dire: questa mostra l’ho già vista a meno che non si intenda un giro panoramico, lecito per carità. Le musiche, i documenti, oltre 20 ore di conversazioni con intellettuali hanno permesso di inquadrare il tema sotto luci e saperi molto diversi tra di loro ed è incredibile come alcune tesi epistemologiche di Gilberto Corbellini possano rimandare a quelle di Stefano Bollani o come le posizioni di politica culturale di Flavia Nardelli possano essere messe in relazione con le esperienze di Salvatore Accardo. Saperi ed esperienze diverse che forse non si incontreranno mai se non a Villa Pignatelli e grazie ad Emilia Gubitosi che ancora una volta è stata l’origine delle “conversazioni”. Una civiltà che continua nella Villa, un simposio a distanza che ciascuno studente, ricercatore, curioso potrà avere a disposizione della “sala del quartetto”: quattro postazioni circondate dalla balaustra originale che separava l’orchestra da ballo dagli invitati della principessa Pignatelli e dove oggi la mostra diventa luogo di studio e di consultazione. Il piano inferiore porta lo spettatore dietro le quinte, a diretto contatto con mousikè: il coro delle Muse che secondo i nostri padri rappresentava l’insieme della arti come un coro polifonico. Non conoscevano la polifonia come noi la intendiamo, ma avevano chiara l’idea che l’arte potesse contribuire alla solidità dei valori condivisi di ciascun membro della comunità. Questa idea l’Associazione Scarlatti ha ripreso in mano dalla sua fondazione, questa l’idea che guida gli eredi di Emilia Gubitosi, Maria De Sanna e Franco Michele Napolitano nella profonda convinzione che come hanno scritto sia Mozart che Newton in una stana ma eloquente consonanza di intenti, occorre appoggiarsi sulle spalle di un gigante per guardare più lontano. Non importa se il gigante sia Mozart, Shakespeare o Galileo, quello che conta è costruire guardando avanti e, per gli antichi greci maestri di cultura e di vita, avanti c’era il passato, perché il futuro essendo imprevedibile non può che stare dietro le nostre spalle. Anche per questo una visita a Napoli musica ininterrotta: cento anni della Associazione Scarlatti vuole essere, per dirla con Franco Michele Napolitano,  una spinta alla coesione dei giovani per favorire la loro reciproca comprensione attraverso l’arte.

Aldo Di Russo


Napoli Musica ininterrotta
100 anni dell’Associazione Alessandro Scarlatti
Napoli Museo Pignatelli
Dal 12 dicembre al 3 maggio 2020
www.100scarlatti.it

[1] Elisabetta Pala La mousiké téchne nel mito greco. ‘Sentire’ la musica attraverso le immagini, “Medea”, vol. I, n. 1 (Giugno 2015)
[2] Staordinario in italiano significa fuori dai canoni ordinari, si usa quando il pubblico conosca il canone oppure come semplice slogan pubblicitario: se lo dice lui che è famoso sarà così. Ecco un esempio di suggestione pubblicitaria priva di contenuto culturale.
[3] Di Russo, A. 2018. Culture as value. Archeostorie. Journal of Public Archaeology. 2: pp. 99-114. DOI: https://doi.org/10.23821/2018_4a
[4] John Dewey Art as experience
[5] Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, BUR 2002
[6] Voltaire Discorso in versi sull’uomo (1738)

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