Si sono svolti presso il Dipartimento di Architettura dell’Università Roma Tre, il 21 e 22 gennaio, i due giorni di lavori che il Roma Fringe Festival organizza sul tema delle politiche di sviluppo del Teatro Indipendente, dedicati quest’anno al regista e attore Carlo Quartucci, recentemente scomparso.
A presiedere il dibattito, come lo scorso anno, è stato Ferruccio Marotti, Professore Emerito di Discipline dello Spettacolo dell’Università di Roma “La Sapienza” e figura centrale della scena teatrale italiana e internazionale del secondo Novecento.
Due giorni di confronto tra i diversi operatori che si sono avvicendati, portando a testimonianza la propria esperienza e facendo chiarezza sulle varie problematiche che interessano il teatro indipendente e, in generale, tutto il settore dello spettacolo dal vivo in Italia.
“Ritengo che il dibattito sia una cosa necessaria per confrontarsi sulle iniziative che si fanno – spiega il direttore artistico del Roma Fringe Festival, Fabio Galadini – L’Italia ha sempre avuto una grande vocazione per lo spettacolo dal vivo, ovunque nascono teatri, festival, scuole e produzioni. Quello che differenzia, a mio avviso, questa epoca dalle altre, penso soprattutto agli anni ’70 e ’80, è che prima si dibatteva su ciò che si stava facendo, ci si confrontava. Oggi non si dibatte più o si dibatte poco, il mercato impone una certa dimensione allo spettacolo dal vivo che è prevalentemente quella del consumo. Viene meno quindi un elemento fondativo, e cioè il tentativo da parte degli operatori di fare rete e individuare insieme quelle politiche di sviluppo che ci permettano di superare gli ostacoli, dovuti a un certo disordine normativo e alla sovrapposizione di regolamenti e di imposizioni, che tutti quelli che fanno questo mestiere prima o poi incontrano.”
“Il problema è che chi ci governa vede il teatro come un’industria – spiega Marco Ciuti, Direttore Amministrativo del Teatro Vascello – lo paragonano al cinema, hanno preso il cinema come esempio da declinare anche nel teatro, un esempio di conduzione di tipo industriale. Ma il cinema si può ripetere, quello che accade in teatro invece è unico e irripetibile e ha un valore che non si può quantificare. Il Teatro Vascello è un teatro privato che riceve un finanziamento pubblico, un finanziamento che potremmo definire irrisorio rispetto a quelle che sono le esigenze di programmazione. Il meccanismo dei contributi pubblici oggi è inadeguato, proprio perché vede il teatro come un’industria, mentre il teatro è artigianato, ha bisogno dei suoi spazi e dei suoi tempi. Oggi, invece siamo tutti incasellati, abbiamo dei parametri da rispettare, il famoso algoritmo, ci contano gli spettatori come se la quantità degli spettatori in sala fosse il parametro per stabilire il valore di quello che uno fa. È quindi una grande sfida quella di riuscire a coniugare il rispetto delle esigenze che richiede lo Stato per il rilascio del contributo e la nostra esigenza di continuare a garantire un pensiero libero.”
“Forse un modo migliore per lo Stato di finanziare il teatro – continua Ciuti – sarebbe quello di attuare una buona politica di defiscalizzazione, ovvero non ci dai contributi ma ci liberi da tutte le imposte a cui il settore della cultura è soggetto come qualsiasi altra industria. Il teatro non può essere visto come un’industria. L’errore più grosso che oggi si possa fare è quello di mettere manager al posto dei direttori artistici alla guida dei teatri, è un errore che, secondo me, stiamo già pagando perché la qualità della proposta teatrale si sta abbassando paurosamente, si va sempre di più verso un teatro di intrattenimento, che forse non ti dà tutti quegli stimoli che può darti un teatro che usa più linguaggi.”
“Nel nostro settore non si segue solo una dinamica imprenditoriale, ma ci viene richiesta anche una forte capacità di interazione con le politiche culturali – spiega Roberta Scaglione fondatrice e co-direttrice di Pav, una società che si occupa di produzione e organizzazione nell’ambito della Performing Arts – Non possiamo fare impresa tout court, perché dipendiamo strettamente dalle politiche culturali. Da una parte ci troviamo, quindi, di fronte a una fisionomia d’impresa, dall’altra davanti a un soggetto attuatore delle politiche culturali, perché nel momento in cui diventiamo beneficiari di contributi pubblici, diventiamo in qualche modo il braccio operativo di quello che la politica culturale ha disegnato, delle sue indicazioni e delle direzioni tracciate.”
“Uno dei problemi principali – continua Scaglione – è che, nonostante dietro il termine “spettacolo dal vivo” si intendano una serie di eventi diversi sia per caratteristiche estetiche e culturali sia per dimensioni, le regole per la produzione a cui fare riferimento sono le stesse per tutti. Una piccola associazione culturale e una consolidata impresa devono rispondere agli stessi adempimenti, che richiedono personale specializzato e risorse economiche. Attualmente l’incremento della burocrazia e la complessità dei parametri di accesso ai finanziamenti sta progressivamente aumentando la distanza fra i soggetti culturali e l’amministrazione pubblica. Si comincia a parlare di “era del banditismo”, perché molte risorse vengono dai bandi, e lì domina l’esigenza da parte dell’amministrazione di seguire principi di trasparenza ed equità e la richiesta di una certa stabilità e di un organico che spesso taglia fuori dall’accesso al contributo le realtà temporanee e il teatro indipendente, in cui sperimentare modelli culturali innovativi.”
Ci si chiede quindi come può il teatro indipendente sopravvivere nella giungla normativa e riuscire a trovare i fondi necessari per finanziare le proprie produzioni mantenendo alto il livello culturale della proposta.
“È importante che il teatro indipendente per garantire la propria esistenza percorra strade non battute – spiega Luca Ruzza, docente di Performance Design all’Università di Roma “La Sapienza” – Si guardi all’esperienza danese dell’Odin Teatret di Eugenio Barba, nel momento in cui le regole del finanziamento pubblico sono cambiate, quando la burocrazia si è fatta più complessa, loro hanno cambiato la propria strategia manageriale, si sono innestati in profondità nel territorio e sono riusciti a slegarsi dal sostegno pubblico. Se oggi cerchi informazioni sulla città di Holstebro, in Danimarca, troverai l’Odin Teatret tra le attrazioni culturali più importanti della città.”
“Un esempio italiano di strategia innovativa applicata per arginare gli ostacoli normativi – continua Ruzza – è il Teatro Ateneo, legato alla storia di Ferruccio Marotti. Una storia particolare in cui il teatro riesce a intercettare i flussi di consapevolezza, di energia e di relazione più interessanti nel mondo e a portarli a Roma. Il Teatro Ateneo era un teatro del dopolavoro, di proprietà dell’Università, e lì c’è stato un corto circuito. Si è riusciti a trasformare un bene di un’amministrazione statale, un teatro del dopolavoro, in un teatro non solo utile alla didattica ma rivolto alla città. Una realtà che non è partita da un fondo FUS o grazie a un finanziamento, ma grazie a un’idea di utilizzo dello spazio per fini didattici, che lo ha legato in modo intellegibile all’indipendenza del teatro. L’idea era quella di restituire questo spazio alla città, come uno spazio in osmosi con la possibilità di fare esperienza, un valore che non puoi misurare con la quantità di biglietti venduti. Quella fu una grande innovazione. Il teatro indipendente deve contenere un codice innovativo. Allora, raccontare possibilità, conoscere e condividere delle esperienze che hanno battuto strade nuove può aiutarci a trovare soluzioni per il futuro.”
“Quando abbiamo portato il Fringe a Roma – racconta il fondatore del Roma Fringe Festival e presidente di Fringe Italia, Davide Ambrogi – ci siamo sentiti come alieni, e devo dire che l’accoglienza da parte delle altre realtà non è stata molto calorosa. Forse proprio questo meccanismo dei soldi pubblici, dove ognuno deve cercare di garantirsi la propria esistenza, non favorisce la collaborazione tra i festival che si occupano di spettacolo dal vivo. Noi, nel nostro piccolo abbiamo cercato di fare ciò che ci divertiva. Molti ragazzi appena usciti dal liceo quando sentono parlare di teatro, sbuffano annoiati, con il Fringe volevamo portare una ventata di novità e di libertà espressiva, che poi è proprio la caratteristica del Fringe.”
“Ogni Fringe assume le caratteristiche della città che lo ospita – spiega ancora il direttore Galadini – La storia del Fringe a Roma è una storia di grandi soddisfazioni ma anche di grandi difficoltà. La scelta di spostare il Fringe dall’estate all’inverno, in particolare nel mese di gennaio, se da un lato esprime la volontà di colmare un vuoto di proposta, dall’altro rappresenta anche un modo per superare le difficoltà concrete che ogni operatore incontra nell’organizzare eventi all’aperto nel nostro paese, difficoltà che con le ultime norme sulla sicurezza sono aumentate. L’organizzazione di un evento del genere, che si autofinanzia non percependo soldi pubblici, richiede impegno, sacrifici e grande umiltà da parte di tutti quelli che ci lavorano. È così che si fa il Teatro Indipendente”.
Quando arriva il momento delle conclusioni, la riflessione del grande Ferruccio Marotti a chiusura dei due giorni di dibattito suona piuttosto amara: “Dopo quello che è stato detto, le conclusioni appaiono desolanti, la situazione nazionale è tale da impedire in pratica qualunque tentativo di dare al teatro una dimensione che sia quella giusta, che si richiama poi alle radici del fare teatro: fare qualcosa da far vedere a qualcuno, senza secondi o terzi fini. Al tempo stesso, però, devo dire che mi fa piacere l’idea che voi tutti continuiate a perseverare in questa pazzia. Perché il teatro è fatto anche di pazzia e bisogna dare spazio anche ai pazzi.”
E allora largo ai pazzi, largo al Roma Fringe Festival e a tutti quelli che credono ancora nell’importanza delle idee contro ogni forma di omologazione.
I video integrali delle due giornate di studio sono su https://www.facebook.com/RomaFringe/
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