Era il 1 luglio 2017 quando Vasco Rossi invadeva il Parco Enzo Ferrari per i suoi quarant’anni di carriera incidendo uno dei traguardi più belli della storia della musica: il Modena Park.
Un concerto-evento, una tempesta musicale senza precedenti.
Duecentoventimila fan arrivati da tutta Italia per brindare al cantante di Zocca, in un luogo simbolo per lui: laddove, cioè, aveva raccolto poco più di una manciata di persone, al suo debutto artistico.
Quel luogo il 1 luglio è stato il più grande formicaio del mondo.
La storia vincente di Vasco Rossi è una storia che piace, fa sognare il suo popolo. Quei fan con cui, lui, non si tira mai indietro e, anzi, addirittura benedice con una frase che ormai chiude tutte le sue serate “Ce la farete tutti”. Lasciando concettualmente un’eredità da investire.
Questa energia, questo carisma che investe la massa, questa iniezione di fiducia di cui, gli uomini, hanno sempre bisogno è lì, presente nelle sue esibizioni, nei suoni che rimbalzano, nelle melodie non scritte.
Dopo Modena Park e quasi tre ore di concerto è difficile eguagliare sé stessi. Eppure, ieri sera a Roma, così come anche a Torino, la storia si è ripetuta.
Lo Stadio Olimpico di Roma è in delirio, le canzoni rock scorrono a un ritmo che fa venire voglia di ballare, gridare, dirlo alla luna cosa si prova a starsene ore con l’adrenalina nel corpo. E quanto sia trascinante cantare all’unisono dei testi, il cui spessore umano, vibra, fino a far riflettere.
Ci si sente appartenere a un pensiero unico, come quando Gli spari sopra si dirama dal palco e raggiunge la gente per lanciare un messaggio di pace; o quando Un mondo migliore guarda al cielo per raccontarsi un’altra favola.
Testi mai uguali, atmosfere che hanno sempre ammiccato ai tempi correnti e mai alle mode, che si sono sempre fatte scudo con la sincerità sfacciata di Vasco Rossi, un’indole che lo ha reso impopolare tra i critici ma non tra la gente comune.
La scaletta poteva mirare a qualche canzone più emotiva, come Gli Angeli, che raramente si affaccia sul palco e, avrebbe potuto riproporre qualche pezzo più recente, come Il Blues della chitarra sola, che sa divertire con il gioco delle note sospese.
Vasco avrebbe potuto aggredire il pubblico a suon di Sballi ravvicinati del terzo tipo, pur mancando il grip del batterista statunitense Will Hunt, assente ieri sera, o scartare la solita Sally, canzone-paracula del suo repertorio, che però conquista i romantici e i nostalgici.
Avrebbe, sì. Ma tanto, ogni pezzo che sale i gradini dei suoi concerti, diventa un’ossessione, un nuovo pezzo mai ascoltato prima. Gira nell’aria come se fosse un mulinello e non si ferma fino a quando le luci restano spente, è nella testa, nelle corde, nelle mani alzate, nella pancia.
Poi si spegne tutto, le luci illuminano, purtroppo, le bottiglie vuote lasciate a terra. Uno spettacolo indegno, soprattutto quando ancora c’è in giro il sapore di quei testi impegnati, che gridano alla rivoluzione, alla volontà di cambiare il mondo.
Poi subentra in fretta la voglia del prossimo concerto. La corsa ai biglietti. E poco importa che sia tra un anno. Vasco Rossi è un appuntamento col destino. E chissà, magari è la volta di San Siro.
Della stessa Autrice:
Quel Rino Gaetano lì Luca Barbarossa è de tutti Jova al Top
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