La percezione diffusa è quella dell’esproprio, quella di essere derubati della possibilità di indirizzare il proprio destino, la propria vita.
Quella sensazione di… precarietà
È una sensazione subdola, che si insinua silenziosa quasi senza che tu te ne accorga, ma con un risultato interiormente devastante. Una percezione che ci viene confermata ad ogni invio di curriculum a cui non abbiamo risposta, ad ogni invio di domanda a concorsi che sappiamo già indirizzati e lottizzati, ad ogni lavoretto che incontri e che lede la tua dignità attraverso una paga da fame o per i ricatti, doppi sensi, sotterfugi a cui devi sottostare. È la sensazione che la precarietà in cui sei obbligato, schiacciato, sia vissuta dagli altri come un virus, capace di contagiare la loro esistenza e quel rifiuto a vederti, a riconoscerti, in realtà, sia solo la paura di venire ingoiati da quella spirale che osservano senza sapere chi l’abbia creata, da dove provenga e a favore di chi vada.
È quella sensazione di essere stati separati anche dalla parte a cui dovresti appartenere, quella che per vivere deve (provare a) vendere il proprio tempo a qualcun altro, quello che utilizza quel pezzo della tua vita per fare più grande la propria ricchezza. È la sensazione che le miopie e le incapacità di contrattare dei sindacati, abbiano finito per segmentare e dividere il “tuo” mondo invece che unirlo e tutelarlo. È la sensazione che studiare e prendersi “un pezzo di carta” può anche essere un tuo diritto, ma che quello stesso riconoscimento (ormai misurato a punti e non a conoscenza e capacità) non valga più nulla se non emesso da una qualche struttura iperselettiva, a qualche luogo privilegiato emanazione del potere, alla quale non hai mai avuto alcuna chance di accedere.
Che le varie “riforme” di scuola e università servivano più a far quadrare le statistiche per le graduatorie internazionali sulle quali misurare “l’efficienza del sistema” (e dei ministri) più che a formare coscienze e conoscenze culturali, scientifiche utili a garantire una vita consapevole e dignitosa. È la sensazione che se hai un problema fisico e ti devi affidare ai percorsi impostati dalle strutture sanitarie pubbliche rischi enormemente di più che se ha dei soldi da mettere sul piatto per fare analisi e interventi a pagamento.
È la sensazione che se devi lavorare in una città diversa da quella che hai scelto per vivere sarai costretto a intrappolarti in vagoni bestiame pagati anche salatissimamente. È la sensazione che andrai in pensione solo quando il tuo corpo non ti concederà che il tempo della cura e nessuno spazio di vita. È la sensazione che se nasci in questo paese, ti accolli un debito che è stato costruito, strumentalmente e con il consenso implicito o esplicito di decine di governi ignoranti, inconsapevoli o complici delle strutture finanziarie mondiali, al di là dei colori dei governi. È la sensazione che le regole, le leggi, i regolamenti, valgano in virtù della capacità di spesa o di influenza politica delle persone. È la sensazione che i teatrini serali dei soliti personaggi, chiamati nei talk show, siano più governati dai dati degli ascolti che dal confronto di idee necessario a far comprendere e scegliere cosa fare e come farlo. È la sensazione che i giornalisti siano complici più dell’organizzazione di un intrattenimento che della costruzione di una analisi critica utile a poter far scegliere le persone.
È l’insopportabile gentilezza con la quale personaggi condannati, inquisiti e spesso apertamente incapaci, siano costantemente invitati a spiegarci cosa dovremmo fare o dare giudizi su ciò che accade. È la certezza che se hai preso un prestito per garantirti un tetto dove vivere (mettendo in subbuglio spesso intere famiglie e obbligando la tua vita a perenni sacrifici) tu devi restituire fino all’ultimo euro, compresi interessi al limite e oltre l’usura (soprattutto se calcolati in percentuale agli interessi riconosciuti), mentre ai grandi gruppi capitalistici mondiali sono concessi privilegi finanziari e fiscali che non si osa neanche raccontare in giro.
Sono sensazioni che potrebbero essere descritte in ogni aspetto della vita individuale e sociale. Quasi il pane comune di ogni scambio, di ogni relazione, informale o meno che sia. Una descrizione che traccia una linea che separa chi ha (ancora) garanzie (e ha una paura devastante di perderle) da chi ha ormai solo la disillusione della esclusione. Una sensazione che induce un rancore verso chi ha ancora qualcosa (e se la difende con tutti gli strumenti culturali, sociali, politici e di potere) e odio verso i (potenziali) concorrenti in quella illusoria rincorsa di una scorciatoia utile a mettersi al riparo.
Solitudine, esclusione, rancore
Solitudine, esclusione, rancore, che questo continuo esproprio ci consegna, ci rendono muti e impotenti di fronte a processi, anche quando pensiamo di gridare fortissimo in piccoli recinti informatici che un algoritmo ha delimitato per costringerci a parlare solo con chi ci risponde o legge, pensando di parlare al mondo. Gridare o indignarsi contro il nostro vicino (di casa, di condominio, di via o quartiere, di città o di regione, di nazione o continente) ci illude di trovare la causa, rimossa la quale, tutto diverrebbe (o tornerebbe) perfetto, semplice, giusto. Lottare contro quelli che utilizzano queste tesi per costruire ed estendere il loro consenso sociale e politico, basandoci su richiami etici o religiosi (siamo tutti persone), risulta vano e incapace di risultati. Le stesse entità religiose, e il Papa in primis, sono contestate implicitamente o esplicitamente, su questo schema, dagli stessi credenti e “fedeli”. Non basta neanche un testo come il Vangelo a indicare la via di un comportamento “altro”.
La semplice denuncia delle storture delle logiche dell’economia finanziaria appare cosa astratta e incapace di affrontare la condizione reale delle persone qui ed ora. Né serve denunciare le forme strumentalmente “manipolatorie” nella costruzione del con/senso. Una volta costruito il “senso” quotidiano delle cose, infatti, il con-senso diviene un processo quasi automatico.
E allora? Basta un’assemblea della sinistra? No, serve intelligenza e creatività
Allora tutto è perduto? Dobbiamo rassegnarci allo spirito dei tempi? Ci rimane solo di essere spettatori “critici” o di lottare per il diritto alla poltrona (pardon il diritto di tribuna) affidato a qualche personaggio che – con logiche vetero-democristiane fatte di pacchetti di tessere, vertici segreti, dichiarazioni roboanti – si arroga il diritto di parlare a nome della sinistra che fu?
Io penso di no, ma, per riprendere un percorso, serve una nuova e grande “umiltà”. Una cosa, però, che non significa convocare una nuova assemblea dove c’è concesso di ascoltare e applaudire degli “autodefiniti” dirigenti politici che, con la loro sapienza e capacità, hanno trasformato la storia della sinistra in un inutile contenitore elettoralistico, con la speranza che da loro arrivi il “salto quantico” necessario. Né serve invocare appuntamenti dove carrellate di interventi “dal basso”, al massimo descrivono il dolore diffuso esistente o il disprezzo per la solitudine, l’esclusione e il rancore che provano anche rispetto ai presupposti dirigenti.
Quello che serve alla sinistra nuova di questo secolo è l’intelligenza (che non significa saper fare bei discorsi, talvolta anche con i congiuntivi giusti) e la creatività (che non significa organizzate serate trendy per pensare di apparire in sintonia con il nuovo).
L’intelligenza di comprendere la fase che si è aperta esplicitamente con la crisi del 2008; di comprendere la qualità, il senso di parole come quelle della “fine di un modello sociale e politico”; di prendere atto dell’emersione di una nuova formazione economico-sociale di nuove forme di produzione del valore che emergono e che reclamano nuove regole istituzionali, legali, normative; di comprendere che non è nel ripristino dei “precari e subalterni” equilibri sociali del passato la chiave per invocare soluzioni e strade per il futuro.
Serve una creatività che si basa si sulla capacità dell’ascolto, ma non per dimostrare un’attenzione necessaria a carpire un consenso (lo vedi sono io dalla tua parte…), ma per elaborare progetti per un domani altro che va costruito qui ed ora. Serve una capacità di comunicare “altra”, che non significa utilizzare strumenti tecnologici come surrogati dell’incapacità di ascolto, comprensione e mancanza di “empatia”. Di quella distanza “tecnica” che si percepisce dietro ad ogni uscita, ad ogni intervento, ad ogni assemblea.
Capire il capitalismo della conoscenza
Serve un’analisi del nuovo capitalismo della conoscenza, delle sue nuove contraddizioni, delle classi che lo abitano, della geografia dei poteri che lo caratterizzano. Serve una analisi di questa società che sta entrando nell’era digitale che stiamo iniziando a vivere e che caratterizzerà il futuro umano d’ora in avanti. La società ove la robotizzazione, l’intelligenza artificiale, la genetica, le nano-scienze, non possono essere sminuite al capitalismo dei “lavoretti delle piattaforme”. Sarebbe un errore catastrofico e irrimediabile per un lunghissimo periodo di tempo. Capire il capitalismo della conoscenza non significa avere la capacità di regolamentare e contrattualizzare i riders. Questo, al massimo, è tentare di portare una piccola frontiera di “(tecno)lavoro a cottimo” all’interno di forme di organizzazione del lavoro dell’era industriale precedente. Una cosa giusta, ma totalmente insufficiente alla bisogna in termini strategici. Come tardiva e ininfluente è oggi la rivendicazione della “contrattazione dell’Algoritmo”, cosa che avremmo dovuto e potuto fare venti anni fa e che oggi lascerebbe la tolda del comando dei nuovi processi nuovamente alla logica meramente capitalistica . Infatti, questo è quello che auspica proprio il “Capitale” e molti, anche a sinistra, ci stanno cadendo per miopia, calcolo o ignoranza.
Affrontare il capitalismo della conoscenza significa, invece, tentare di strappare l’egemonia della direzione del processo in atto alle logiche di riproduzione del capitale. In altre parole, saper immaginare il futuro umano attraverso le potenzialità organizzative e produttive “oltre-capitalistiche” che le tecnologie rendono disponibili e che sono, consapevolmente o meno, già praticate da milioni di persone (come dimostrano le esperienze dell’open-source, le economie sociali della condivisione, del dono, quelle del riuso, ecc…). Un orizzonte di pratiche politiche che la “sinistra” di oggi deve poter organizzare e mettere in campo, indicando una fuoriuscita dalla produzione capitalistica, prima che la logica finanziaria distrugga il pianeta.
Per fare questo, serve la capacità di immaginare come le conquiste e le conoscenze raggiunte dall’umano, in ogni settore della scienza, della tecnologia e della stessa consapevolezza della nostra presenza sul pianeta come una “specie tra le specie”, possano donare un’esistenza non solo più libera e più giusta per tutti, ma anche compatibile con i cicli vitali del pianeta. Occorre praticare nuove formule di organizzazione sociale e produttiva che le tecnologie ci mettono a disposizione, qui ed ora. Non c’è possibilità, infatti, di una vita serena e dignitosa dentro dei territori (nazionali o meno) circondati da povertà, diseguaglianze, ingiustizie, fame e disperazione; neanche se circondati da mura altissime. Serve una capacità di organizzare le forze nuove che i processi stanno producendo indirizzandole al di là della logica capitalistico-finanziaria, ma senza abbandonare le lotte in difesa di quelle che subiscono ancora gli effetti della crisi del vecchio modo di produrre capitalistico. Serve capire come si stia trasformando il concetto di lavoro e come oggi sia possibile iniziare a produrre organizzazioni “di liberi produttori associati”. Serve un modello di vita che renda compatibile la nostra esistenza con tutti gli esseri viventi e i cicli naturali.
In altre parole, serve uno scarto, ora. Serve la produzione di un “senso” della vita per iniziare a ri-costruire il consenso politico per un cambiamento. Serve un fronte politico che sappia rimettere in campo una idea altra di aspirazione ad un’altra civiltà. Solo questo può fronteggiare la regressione dei populismi e dei nazionalismi.
E per far ciò, quello che manca nello scontro politico in atto in questo momento nel pianeta è proprio una soggettività del mondo del lavoro che spinga per questo esito. Una ricomposizione di un fronte ma soprattutto di una prospettiva che non può limitarsi alla difesa dello sfruttamento del lavoro industriale e neanche di quello delle sue classiche suddivisioni novecentesche.
Oltre il nazionalismo
La “rivoluzione digitale”, così la chiamano le aziende e non a caso, ridescrive tutto e indica nuove contraddizioni ma anche nuove prospettive. La rivoluzione produttiva immateriale fa irrompere sulla scena nuove forme di produzione intorno al “Lavoro Implicito” che indicano anche nuove e più avanzate potenzialità ri-organizzatrici della produzione, delle relazioni e del soddisfacimento dei bisogni individuali e sociali.
Ma serve una ripresa di capacità politica e rivendicativa.
Al dibattito politico in Europa, in particolare, manca il soggetto che negli ultimi due secoli è stato il protagonista, con le sue rivendicazioni generali e “sovranazionali”: il movimento dei lavoratori, quello che aveva rivendicazioni generali e globali, rivendicazioni di civiltà che avevano la forza di traguardare l’oltre e saper contrattare l’oggi. Oggi serve una capacità analoga che metta in marcia una mobilitazione nuova del mondo del lavoro, vecchio e nuovo, capace di rivendicare una circolazione delle merci che garantisca il rispetto del modello di welfare che i lavoratori europei si sono conquistati in un secolo di lotte e, al contempo, sappia mettere in campo riorganizzazioni produttive “oltre-capitalistiche”. Una rivendicazione che parta dall’idea che i salari debbano essere uguali nel territorio europeo come tutte le tutele sociali. Senza una “riunificazione” di orizzonti, le divisioni nazionali condurranno tutti alla sconfitta e alla vittoria dei vari nazionalismi.
Il movimento dei lavoratori ha vissuto già queste miopie nazionali nel ‘900 arrivando anche a votare i crediti di guerra che aprirono alle guerre nazionalistiche che divennero “mondiali”. Non c’è soluzione, per chi sta in basso, all’interno di confini nazionali. Non c’è un “destino italico” come non esiste un “destino tedesco” o uno “francese” per un lavoratore. E non è vero che se le élite nazionali vincono, vince tutto il paese, mentre è vero il contrario: se vince il mondo del lavoro europeo vince una idea di civiltà forse a livello mondiale.
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