Preceduta da un battage mediatico senza precedenti che ha visto uno dei due Curatori, Alberto Dambruoso estromesso, si è inaugurata ufficialmente la mostra Il Tempo del Futurismo alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, promossa e sostenuta dal Ministero della Cultura e curata da Gabriele Simongini, per celebrare l’ottantesimo anniversario dalla scomparsa di Filippo Tommaso Marinetti, avvenuta il 2 dicembre 1944.
“La nostra opera fresca di qualche mese precorre di almeno cento anni la sensibilità artistica italiana”. Con queste testuali parole, esattamente centodieci anni fa, nel 1914, Umberto Boccioni pubblicava nel suo Pittura scultura futuriste una riflessione profetica, idealmente alla base della mostra Il Tempo del Futurismo.
Anche Giacomo Balla nel 1927 annunciava: “Anche i minimi tentativi futuristi possono essere ilprincipio della nuova arte futura. E con questo, con una superstrafede indistruttibile, a rivederci tra qualche secolo”.
Ragion per cui le opere esposte nelle sezioni storiche della Motra forse più attesa dell’anno devono essere viste non come esiti completamente chiusi e compiuti (ciò avrebbe fatto inorridire i futuristi, che, non dimentichiamolo, esaltavano la sconsacrazione dell’arte e il rifiuto di ogni solennità sotto il segnodi una perenne sorpresa e una grande ilarità), ma come segnali indirizzati verso il futuro, nuclei irradianti una potenza creativa che si espanderà nei decenni successivi in tutta l’arteinternazionale e perfino nei mutamenti antropologici della nostra società attuale.
La mostra della GNAM finisce con l’avere, pertanto, presupposti, aspetti e intenti ben diversi rispetto a rassegne epocali come Ricostruzione futurista dell’universo dei Musei Civici di Torino, curata nel 1980 da Enrico Crispolti, o l’ormai mitica Futurismo & Futurismi, curata da Pontus Hultén e allestita nelle sale di Palazzo Grassi a Venezia nel 1986 (d’altro canto, sarebbe impossibile fare un paragone per l’epoca profondamente diversa in cui si sono realizzate queste due rassegne e anche per l’odierna difficoltà, relativa agli elevatissimi costi di trasporti e assicurazioni, per avere prestiti di opere di caratura internazionale, sempre più spesso considerate inamovibili dai musei che le custodiscono).
O come Futurismo 1909-1944, curata sempre da Crispolti nel 2001 per il Palazzo delle Esposizioni a Roma, o Futurismo 1909-2009, curata da Giovanni Lista e Ada Masoero nelle sale di Palazzo Reale a Milano nel 2009, o, infine, Italian Futurism, 1909-1944: Reconstructing the Universe, curata da Vivien Greene per il Solomon R. Guggenheim Museum di New York nel 2014, solo per citarne alcune.
La mostra della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, che dopo molti anni torna finalmente a ospitare una rassegna di ampio respiro e impegno attingendo largamente ai suoi straordinari depositi, ambisce contestualizzare i capolavori esposti in una sorta di “sociologia” culturale fondata soprattutto sulle fondamentali innovazioni scientifiche e tecnologiche che ne hanno accompagnato la creazione e senza le quali sfuggirebbe completamente il senso profondamente e radicalmente rivoluzionario del futurismo.
Con l’obiettivo di non rivolgersi perlopiù agli addetti ai lavori con il solito gioco, piuttosto stucchevole, del “quest’opera c’è ma quella manca”, Gabriele Simongini ha deciso di riservare invece una particolare attenzione a un pubblico di giovani che spesso ha sentito parlare di futurismo attraverso pochi e confusi cenni scolastici.
Non dobbiamo dimenticare, del resto, che il movimento marinettiano aveva fin dalla nascita fra i suoi scopi principali quello di “incoraggiare tutti gli slanci temerari dell’ingegno giovanile, per preparare una atmosfera veramente ossigenata di salute, incoraggiamento ed aiuto a tutti i giovani geniali d’Italia”, come disse Marinetti nel Discorso di Firenze dell’ottobre 1919.
Così, questa mostra mette in rapporto le opere con oggetti e strumenti scientifici d’epoca provenienti dal Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci” di Milano, ma anche con i fondamentali mezzi di locomozione che hanno modificato profondamente i concetti di velocità, spazio, distanza e sensibilità percettiva con mutamenti antropologici che non avevano precedenti in nessuna altra epoca, contribuendo a una riconfigurazione radicale del paesaggio esterno e di quello interiore.
Nel costante interscambio fra innovazioni tecnologiche, teoria letteraria e prassi creativa, si parte da fine Ottocento con gli artisti citati e ammirati dagli stessi futuristi (Medardo Rosso e i divisionisti Giuseppe Pellizza da Volpedo, Gaetano Previati, Giovanni Segantini), con il fondamentale simbolismo espressionistico di Romolo Romani, futurista per poche settimane, che testimonia una componente fondamentale del movimento marinettiano, e con alcune opere formative dei cinque futuristi iniziali (Balla, Boccioni, Carrà, Russolo e Severini), che ci portano a inizio Novecento. Sul limite tra divisionismo e futurismo, si propone eccezionalmente il dialogo diretto, fianco a fianco, tra Il Sole (1904) di Pellizza da Volpedo e Lampada ad arco (1910-1911 circa) di Balla, il suo primo quadro futurista, concesso in prestito dal MoMA di New York, per sottolineare il cambiamento epocale fra una concezione panica della natura che rispecchia ancora un’Italia rurale e agricola e la novità dell’elettrificazione (la “Fata Elettricità”, come veniva chiamata), che esprime pienamente la “Modernolatria” di cui parlava Boccioni e che ha influenzato fortemente i futuristi anche nella strutturazione formale delle loro opere, come se fossero percorse da scariche elettriche.
Del resto come non ricordare che nel 1900 Balla visitò il Palazzo dell’Elettricità all’Esposizione Universale di Parigi, dove le applicazioni pratiche dell’elettricità meravigliavano i visitatori: telegrafo, telefono, radiografia, elettrochimica, «l’accumulatore» o pila ecc. ?
Non a caso, nel Manifesto tecnico della letteratura futurista Marinetti incitava anche a “elettrizzare lo stile”.
E ancora lui, nel manifesto La nuova religione-morale della velocità dell’11 maggio 1916, scriveva: “Io prego ogni sera, la mia lampadina elettrica; poiché una velocità vi si agita furiosamente». Inoltre, nel Paesaggio e l’estetica futurista della macchina (1931), il creatore del futurismo esalta «le nuove immense costellazioni di luce elettrica inventate e costruite dal fiorentino Jacopozzi» sulla Torre Eiffel, definendolo «un futurista» e «il plasmatore elettrico delle notti moderne”.
A buon diritto, l’elettrificazione può essere considerata, perlomeno fino a oggi, la più grande rivoluzione ambientale della storia umana dall’addomesticamento del fuoco.
Con il loro fanatismo radicale e audacissimo, i futuristi hanno sprigionato un’energia simile a quella che si sviluppa nel passaggio tra due stati, da solido a liquido, trasformando due epoche e due mondi, quello agricolo ottocentesco in quello industriale novecentesco, come è appunto evidente nel dialogo fra Il Sole di Pellizza da Volpedo e Lampada ad arco di Balla. Ma è anche importante notare una chiara continuità tecnica sotto il segno del divisionismo e di una concezione atomistica che unisce i due capolavori attraverso una tradizione in costante divenire, cifra forte e caratteristica dell’identità artistica italiana.
Il Tempo del Futurismo è declinato in dieci sezioni, ricche di manifesti, libri e riviste (non va dimenticato che lo stesso Marinetti, nel testo Marinetti e il futurismo del 1929, identificava la nascita del movimento nella fondazione della rivista “Poesia” nel 1905), ma anche di film e oggetti tecnologici: “Prima delfuturismo”, “Futurismo analitico e dinamismo plastico”, “Ricostruzione futurista dell’universo”, “Arte meccanica”, “Aeropittura”, “Idealismo cosmico e suoi sviluppi”, “Eredità del futurismo dal secondo dopoguerra”, oltre a due sezioni tematiche dedicate rispettivamente al cinema e all’architettura e a una sala dossier su Guglielmo Marconi.
Senza avere la pretesa di documentare esaustivamente il percorso creativo dei tantissimi artisti futuristi attivi capillarmente in tutta Italia ed esemplarmente rappresentati in passato soprattutto nelle rassegne curate da Crispolti, la mostra dedica esaustivi approfondimenti, oltre ai cinque fondatori, a Fortunato Depero ed Enrico Prampolini, i quali, senza fare semplicistiche graduatorie di merito, col passare del tempo e grazie a importanti studi storico-artistici assumono un rilievo sempre maggiore nell’ambito delle ricerche futuriste successive alla scomparsa di Boccioni e segnate per certi aspetti dalla leadership di Balla.
I futuristi furono i primi a capire veramente che si stava realizzando una condivisione di massa del cosiddetto progresso e che nuovi modi di pensare e di sentire lo spazio e il tempo sarebbero nati dalle fondamentali innovazioni tecnologiche affermatesi fra la seconda metà dell’Ottocento e i primi anni Dieci del Novecento: il telefono, i raggi X, il cinema (che per i futuristi “darà all’intelligenza un prodigioso senso di simultaneità e di onnipresenza, offrendo una sintesi alogica e fuggente della vita mondiale”, come scrissero nel manifesto La cinematografia futurista del settembre 1916), la radiotelegrafia-e quindi la comunicazione elettronica istantanea -l’automobile, la motocicletta, l’aeroplano.
Come sottolineato da Massimo Osanna, Direttore Generale dei Museo del MIC “Il Tempo del Futurismo è quanto mai presente, quindi, è il tempo dell’oggi, dell’arte e della cultura contemporanee, delle forme visuali e culturali del vivere moderno, che trovano concretizzazione plastica nella bella mostra qui organizzata dal Ministero della cultura”.