Il World Press Photo mette insieme delle visioni, ce le passa senza filtri, ci permette di entrare in quei conflitti internazionali dall’aspetto macabro
La fotografia è una domanda
Il World Press Photo è il Premio più ambito dai fotogiornalisti di tutto il mondo, uno di quei riconoscimenti che non accende i riflettori solo sugli autori e sulle foto ma anche sulle criticità tra paesi, sugli stati sociali più poveri, sull’emarginazione, la morte, la violenza. I fotografi vengono chiamati a presentare un lavoro che solleva dubbi, fa nascere discussusioni, porta sotto gli occhi di tutti l’aspetto più crudo delle guerre.
Ci sono tre scatti degli ultimi anni che mi hanno molto colpita.
Il primo è del 2014, Signal, che apparentemente sembra il frame finale di un film di fantascienza e, le silhouettes vaganti, ombre aliene in grado di captare radar invisibili.
In realtà si scopre che sono migranti africani in sosta a Djibouti, la terra di transito per raggiungere l’Europa, e che sfarfallano i cellulari in aria nel tentativo di connettersi a una linea telefonica. Sono tutti in cerca della voce di un familiare o un amico lasciato dietro, nelle terre bombardate.
John Stanmeyer, autore di questo scatto, è un fotografo pluripremiato ma anche un uomo acuto, un grande osservatore della semplicità del mondo. A volte la banalità di un evento può trasformarsi in un manifesto, come in questo caso: se Stanmeyer non si fosse fatto delle domande non avrebbe saputo leggere e, quindi, tradurre per noi, un gesto tanto normale come la ricerca di campo. Un gesto che nasconde tanto disincanto, pitturato dentro un blu sfumato, molto poetico.
Il World Press Photo ha occhi dappertutto
Il secondo scatto è del 2015, è arrivato secondo al World Press Photo, e ribatte fortemente contro la Cina e i circhi con gli animali, dove il maltrattamento e la denutrizione, la crudeltà, sono all’ordine del giorno. Yongzhi Chu, l’autore di questo triste quadro, immortala la vita di una scimmia, del suo aguzzino, racconta l’intimidazione, la sottomissione, il gioco che si trasforma in paura, accanimento, privazione di ogni diritto.
Sono tanti esseri muti contro cui gli uomini si scagliano compiendo miseria. E loro restano immobili, vittime di ogni atrocità, dentro una gabbia, paralizzate contro un muro, esibite per trarre profitto.
Il terzo scatto del Wolrd Press Photo è del 2016, Hope for a new life. Questa immagine scava un solco dentro una linea di confine, tra la vita e la morte, tra il mondo degli adulti e quello dell’infanzia. Vive di una sua intensità, di una sua luce sfumata. Scattata da Warren Richardson, l’immagine di questo bambino, che viene consegnato da un abbraccio a un altro, passando attraverso lo squarcio di una recinzione, è quanto di più emblematico della storia moderna. C’è paura, clandestinità, oltraggio, rifiuto all’accoglienza. Ma c’è anche la rinascita, questo passaggio simbolico che fa pensare al ventre di una madre.
Ad accogliere il bambino, dall’altra parte della recinzione, c’è un rifugiato siriano, uno dei tanti a cui l’Ungheria aveva chiuso qualsiasi via ufficiale, costruendo una barriera anti-uomo lungo tutta la frontiera.
Richardson era lì a documentare quella paura, quella fuga, quello strisciare, nascondersi, quel lento movimento verso la libertà.
Chissà quale sarà lo scenario fotografico del World Press Photo di quest’anno. C’è grande attesa.
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