Lei mi parla ancora è l’ultimo film di Pupi Avati, il racconto nostalgico di un amore immortale e di una Italia che non c’è più, con un Renato Pozzetto inedito e sorprendente che ci regala una performance piena di grazia. Su Sky Cinema e in streaming su Now Tv.
Renato Pozzetto e Stefania Sandrelli sono Giuseppe “Nino” e Caterina “Rina”, una coppia di anziani con un legame che un matrimonio lungo sessantacinque anni ha reso indissolubile. Quando muore la moglie il vecchio Nino piomba in una condizione di incredulità trasognata: inaccettabile l’idea di una vita senza di lei. Per riportare il padre alla realtà e dare un senso al tempo che gli resta ancora da vivere, la figlia Elisabetta (Chiara Caselli), che di mestiere fa l’editrice, ingaggia lo scrittore Amicangelo (Fabrizio Gifuni) per aiutare il padre a scrivere le sue memorie e il racconto del suo amore con “la Rina”.
Se il primo incontro tra i due uomini non promette nulla di buono, il vecchio è chiuso nel suo riserbo e lo scrittore è frustrato per il suo ruolo da ghostwriter, con il passare del tempo tra i due si instaura un rapporto di stima e affetto. I ricordi di Nino sono ormai la sua dimensione, il giorno in cui la conobbe, il giorno del matrimonio in cui votarono il loro amore all’immortalità, le passeggiate in bicicletta, la pesca sul Po, i balli. Lui è vivo ma la moglie gli parla ancora, Nino è nel passato e nel presente. Un presente, qui rappresentato dallo scrittore disincantato, che fatica a comprendere fino in fondo quegli amori immortali, costruiti con pazienza e sacrificio, rari per il nostro tempo, se non già estinti.
La nostalgia, la memoria, la morte, la Pianura Padana, gli ingredienti per un film cento per cento avatiano ci sono tutti. Con Lei mi parla ancora, Pupi Avati prende l’omonimo libro di Giuseppe “Nino” Sgarbi (padre di Elisabetta e Vittorio) e lo traduce in un cinema personale, nella creazione di atmosfere impalpabili, come quei fantasmi che porta in scena, e allo stesso tempo profondamente terrene, nel racconto di una vecchiaia che è tenerezza e riserbo e nell’elogio di quegli amori di tutta una vita, di cui ognuno di noi ha sentito parlare in qualche ricordo di famiglia. Nei primi minuti del film, quando Rina viene portata in ospedale e Nino, impossibilitato a seguirla, la chiama disperatamente in cerca di un contatto, è impossibile non rivedere le immagini commoventi, che ci hanno accompagnato in questi mesi, di quegli anziani separati dalla pandemia che si cercano e si toccano attraverso un telo di plastica. Gli anziani che la retorica della produttività a tutti i costi ha troppo spesso considerato sacrificabili, dimenticando un patrimonio di conoscenza e di memoria che è essa stessa parte fondamentale della ricchezza di un popolo.
La frase che racchiude il senso del film è tratta dai Dialoghi con Leucò, da quel Cesare Pavese che, come Avati, sentiva la dimensione arcaica e magica della terra in cui era nato, da quello scrittore malinconico che l’amore immortale lo cercò per tutta la vita: “L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”. Quando scrisse questo passaggio Pavese non aveva neppure quarant’anni, ma viveva già nella vigilia di un congedo, come il Nino che sa di salutare per l’ultima volta lo scrittore di ritorno a Roma, lui che vive già, dal giorno in cui è morta sua moglie, in una dimensione altra, sospesa, che non è ancora morte ma non è più pienezza di vita; una condizione in cui passato e presente appaiono uniti e inscindibili, che non si confondono ma dialogano, come Nino e sua moglie.
Ci volevano tre grandi vecchi, Nino Sgarbi, Pupi Avati e Renato Pozzetto per raccontare questa dimensione difficilmente afferrabile che il maestro porta sullo schermo regalandoci un film di rara compostezza, drammatico, mai patetico, trasognato e commovente. La fotografia di Cesare Bastelli, storico aiuto regista di Avati, contribuisce alla creazione di un’atmosfera fiabesca, con un tocco di realismo magico, quella del tempo perduto ma mai dimenticato, in cui Rina e Nino ballavano sulle rive del Po. Avati trova la sua maggiore ispirazione nel ricreare la provincia italiana degli anni ’50, in cui lui stesso si è formato, e ci regala, soprattutto nella sequenza del ritorno a casa di Nino con la sua neosposa, un momento del suo miglior cinema.
La scelta di Renato Pozzetto, che In lei mi parla ancora si cimenta con il primo ruolo drammatico della sua carriera, per la parte di Nino è una di quelle intuizioni geniali di cui abbonda la filmografia di Pupi Avati, dal Diego Abatantuono di Regalo di Natale al Carlo Delle Piane di Una gita scolastica, dal Massimo Boldi di Festival fino al Christina De Sica di Il figlio più piccolo, e che lo conferma nel panorama cinematografico italiano come uno dei più grandi, se non il più grande, direttori di attori viventi. L’interpretazione di Renato Pozzetto è misurata, essenziale, il suo tono di voce è quasi sempre lo stesso, non calca sulle emozioni, ma è proprio grazie a questa sua fissità che riusciamo a percepire, a sentire, la sua condizione di sospensione, a metà strada tra “l’orto dei morti” e la terra dei vivi. E ne esce un personaggio fragile e autorevole, che suscita una profonda tenerezza, come solo certi vecchi sanno fare. L’interpretazione di Pozzetto emerge e prende luce anche grazie al contrasto con quella da accademia di Fabrizio Gifuni, con il bel timbro, le pause studiate e la modulazione perfetta del tono che rendono le sue prove attoriali sempre impeccabili.
Ma nei film di Pupi Avati è raro trovare difetti nel lavoro degli attori, il maestro è sempre attento alla verità dei suoi personaggi e uno dei tratti distintivi del suo lavoro è l’attenzione per i volti, anche quelli secondari, come fu per quei registi che hanno fatto grande il nostro cinema, a partire da Fellini a cui Avati è stato spesso accostato. È un cast perfettamente assortito quello di Lei mi parla ancora, con una brava Chiara Caselli nel ruolo di Elisabetta Sgarbi, e con le brevi, ma emotivamente intense, partecipazioni di Stefania Sandrelli e di Alessandro Haber nel ruolo di Bruno, cognato e amico di Nino, compagno di pesca e di gare di poesia.
Isabella Ragonese e Lino Musella nei ruoli di Rina e Nino da giovani ci regalano l’illusione di assistere davvero alla nascita di un amore ingenuo e puro, votato all’immortalità, in quella Italia che fu dei nostri genitori e dei nostri nonni, l’Italia contadina, semplice e radicata alla terra che oggi non esiste più, se non nella memoria e, per fortuna, nei film di chi l’ha vissuta e come Pupi Avati la ricorda con nostalgia, ricreandola con un lavoro attento, come sempre, di scenografia e costumi.
Se c’è un difetto in Lei mi parla ancora è forse da rintracciare nella sua breve durata e quindi in un mancato ulteriore sviluppo della sceneggiatura, firmata dallo stesso Pupi Avati e dal figlio Tommaso. Una storia come questa, che ha l’ambizione di raccontare tutta una vita, avrebbe meritato maggior respiro. E proprio perché Avati ci regala una prova del suo miglior cinema, avremmo voluto averne di più.
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