EditorialeSe vince la vita anche il nostro lavoro diventa più facile

Se vince la vita anche il nostro lavoro diventa più facile

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Solo quando l’ho vista entrare ho capito il perché di quel trambusto: gente in attesa, telefoni puntati a filmare un evento, insomma, un gruppo in piena fibrillazione. Si è aperta la porta scorrevole ed è apparsa in braccio alla sua nuova mamma vestita di rosso. Anche la mamma, indossava con orgoglio una maglietta rossa con una scritta di una associazione che non ricordo: adottare piccoli esseri umani con i quali condividere le nostre fortune, questo era il senso. 

La bambina era bella da dare spettacolo di per sé. Tratti orientali ed una faccina tonda e bianca come una perla troppo grande per essere contenuta nella sua conchiglia originale. Era spaurita da tutta quella gente e dal frastuono degli arrivi in un aeroporto internazionale, il suo papà seguiva carico di bagagli con indosso la stessa maglietta rossa; era la divisa dell’orgoglio di squadra. Già, la squadra, quella non ve l’ho ancora presentata, vi ho solo detto che filmavano. Erano venuti in tanti, con un grande striscione da stadio sul quale c’era scritto solo “Benvenuta”. A volte la lingua ha questo vantaggio, non servono troppi giri di parole per esprimere quanto di più alto ci possa essere nei comportamenti umani. 

adottare

Lasciatemi andare avanti nel racconto e vi dirò come quella parola era in realtà un segno, la sintesi di un comportamento, l’immagine di una cultura.

Quando quella piccola perla disorientata all’esterno del suo mare è entrata nella sala dell’aeroporto, tutti sono scattati come furetti a caccia della preda, una decine di persone, in maggioranza donne e bambini con macchine fotografiche, telefonini pronti a filmare l’arrivo della diva. Vi ricordate le immagini della dolce vita? I paparazzi? Era più o meno così, la necessità di immortalare per primi ciò che è unico ed irripetibile: il primo momento Italiano di quella piccola bimba nata in un posto molto lontano. Per farvi capire di più, è necessario quello che al cinema si chiama controcampo. Finora il soggetto è stata lei, ma ora il racconto si sposta sul gruppo di persone prima in attesa, ma ormai scatenati a conquistare la prima foto. 

Erano capitanati da una signora più anziana, forse la nonna che avevano in comune, energica e volitiva, sembrava la mamma di Rocco e i suoi fratelli quando benedice la neve che è finalmente arrivata a Milano e li manda a spalare le porte dei vicini. Come le nonne nella tradizione popolare insegnavano attraverso gesti e comportamenti le regole della vita e della convivenza, quelle del bene e del male indicando l’unica strada maestra e predisponendo le cose affinché esistesse una guida alle generazioni future, così lei disponeva i nipoti in fila per il rituale che avrebbe tra poco preso inizio. Era il dietro le quinte di una civiltà antica che fa del rito un momento tutt’altro che rituale. La nonna era la personificazione di Mnemosine (la memoria) madre, secondo la mitologia greca, di tutte le muse, madre di chi sovrintende alle fonti, quindi alla vita, madre di Clio: il racconto epico e dunque la storia come maestra di vita e di Calliope, la poesia, di conseguenza autrice di quel “Benvenuta” che ora capite bene essere un verso e non un lemma della lingua italiana.

Il rito è di semplice descrizione nella sua meccanica, la perla d’oriente fino a quel momento in braccio alla madre, è stata spostata in basso, all’altezza degli altri bambini membri di quella comunità, il che sarebbe come dire: messa a diretto confronto con quanti l’avrebbero dovuta accogliere nella nuova casa come nuova compagna di giochi. Ciascuno dei bimbi, ordinatamente in fila veniva accompagnato per mano dalla propria mamma ad accarezzare e baciare la nuova arrivata. Quel bacio di iniziazione alla nuova vita valeva come promessa che ciascuno faceva a se stesso essendo stato allevato per includere ed accogliere. Non vi ho ancora detto che tra i bambini in fila c’era anche una piccola orientale con un sorriso di felicità che lasciava sporgere due dentini davanti, un inno alla gioia che raccontava dell’abitudine di quel gruppo di persone a condividere con altri la fortuna di vivere in una porzione di mondo baciata dalla sorte. Una scuola per tutti quei bambini. Che fortuna che hanno a vivere in una scuola perennemente attiva contro pregiudizi e avidità, in una scuola che insegna che la solidarietà non è carità e basta, ma è un modo di vivere che garantisce la crescita di tutti, in una scuola che insegna che la globalizzazione come sfruttamento dei ricchi sui paesi poveri ha una opposizione interna militante, una scuola che insegna che dare una opportunità a tutti non significa essere tutti uguali, ma solo aver capito cosa significhi “Democrazia”.

Ho fatto tardi, quel giorno a Fiumicino, ma osservare da vicino il comportamento di persone che non finiranno mai sulle prima pagine dei giornali e che contribuiscono senza imposizioni e senza aiuti ad alleviare i diciassettemila minori soli che sbarcano ogni anno sulle nostre coste non in braccio ad una mamma che è volata per averti. Racconto questo momento perché è da tanto che volevo scrivere e non ci sono mai riuscito un ricordo di Aylan, ricordate l’immagine terribile del piccolo Siriano che giaceva a faccia in giù sulla spiaggia Turca? Bene forse l’incontro di Fiumicino mi ha aperto un canale che me lo ha fatto tornare alla mente e mi dà la forza di ricordare. La parte tragica di quella foto, oltre il bimbo, si intende, erano i suoi vestiti nuovi. Scappava dalla guerra, da una città, la sua, ormai in mano d’altri. Mi ha ossessionato per giorni la voce della mamma il giorno prima, la sua apprensione: Vieni via Aylan, non sporcarti le scarpe nuove che domani andiamo in Europa, devi fare bella figura, mettiti la maglietta rossa e pantaloncini buoni e non correre,….. sudi e il viaggio e lungo,…. una volta arrivati potrai giocare con gli altri bambini, sai Aylan in Grecia, in Italia, in Germania giocano molto bene a pallone….. 

Voleva solo giocare come gli altri e quella immagine mi ha lasciato vigliaccamente muto per tutto questo tempo. Finalmente riesco a parlarne pensando a perla d’oriente ed ai suoi nuovi cugini romani compreso quello più grandicello con l’aria scanzonata, me lo immagino, prima di accordarle del tutto la sua completa disponibilità solidale avrà bisogno di sapere una cosa fondamentale nella nostra città: “ma sei della Roma o della Lazio?”. Non so cosa altro dire in conclusione se non di nuovo “Benvenuta”. Ho fatto uno sforzo per ricordare la scritta completa sulla maglietta rossa di mamma e papà al loro ingresso, ma non avendola annotata per l’emozione, proprio non me la ricordo. Ricordo solo due parole: “Associazione” e “Vita” mi pare che bastino come finale. Se vince la vita anche il nostro lavoro diventa più facile. 


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