“Distopia – Previsione, descrizione o rappresentazione di uno stato di cose futuro, con cui, contrariamente all’utopia e per lo più in aperta polemica con tendenze avvertite nel presente, si prefigurano situazioni, sviluppi, assetti politico-sociali e tecnologici altamente negativi.” Dizionario Treccani.
Nella prima metà del Novecento, ispirata dai grandi cambiamenti che hanno stravolto le società occidentali già a partire dal XIX secolo, intorno al concetto di distopia è fiorita una letteratura di grande successo, che ha poi trovato ulteriori suggestioni negli eventi catastrofici delle due guerre mondiali e nel carattere dei regimi totalitari fino ad arrivare alla rivoluzione tecnologica degli ultimi decenni. Una visione pessimistica del futuro in cui l’umanità è spesso ritratta come asservita a forme di potere e di controllo totale che limitano diritti e libertà (in una realtà generalmente ipertecnologica), o sull’orlo dell’estinzione per un qualche evento apocalittico.
Nello spettacolo La madonna dei topi. Tre studi per una trappola, prodotto da Fucina Zero e presentato all’ultima edizione del Roma Fringe Festival, siamo già in un mondo post-umano e sono i topi ad aver ereditato la terra, ormai devastata dall’inquinamento e sommersa dalla spazzatura. Il progetto prende spunto dalla leggenda tedesca del Pifferaio di Hamelin e immagina una civiltà dei topi iperconsumistica e sfrenatamente individualistica. Una società di disperati, reietti, alienati, affaristi senza scrupoli e teleossessionati in cui non c’è più spazio per le relazioni sociali, né tantomeno per i sentimenti.
Un affresco iperbolico che esprime, come nella migliore tradizione della letteratura distopica, una critica alla nostra società dei consumi. “Questi topi siamo noi, ovviamente – spiega il regista Lorenzo Guerrieri – ridotti a questo stato di consumatori che accettiamo, che sembriamo accettare”. Siamo, quindi, tutti topi in trappola, il cui unico scopo è comprare, consumare. Che siano cose o immagini, poco importa. Ciò che conta, ciò che produce senso non è il consumo della cosa ma è il rito, l’atto stesso del consumare. È questo a determinare l’appartenenza al gruppo sociale.
Loading 2101 della compagnia Post-it 33 non immagina una civiltà post-apocalittica ma un futuro (molto probabile e in realtà già presente) in cui i rapporti umani sono affidati ai dispositivi di comunicazione a distanza e tra gli esseri umani non c’è più alcuna forma di contatto fisico. Le persone non si toccano più tra loro ma vivono in una bolla di esperienza virtuale. Non uno scenario post-umano quindi, ma dis-umano. Il paradosso, ben espresso nello spettacolo, è che in questa nostra società della comunicazione, a minare i rapporti umani è proprio la sofisticazione degli strumenti per comunicare.
Uno spettacolo che si serve della funzione poetica del corpo, nei bei quadri di clownerie, proprio per sottolineare l’importanza della relazione umana, messa in serio pericolo dall’insorgere delle macchine. Il progresso, nello scenario distopico proposto da Loading 2101, come ci spiega il regista Salvatore Riggi, non ha aiutato l’umanità a fare un passo avanti, le ha invece tolto quel qualcosa che dovrebbe invece caratterizzarla. Stiamo costruendo una società priva di relazioni empatiche? Il rischio appare evidente.
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