Sentiamo parlare spesso in questi giorni di “situazione di guerra”, di “bollettino di guerra”, dello “stare in trincea”, metafore potenti e immediate utilizzate da giornalisti, politici e dagli stessi medici per evocare la drammaticità degli eventi che stanno interessando il nostro paese e il resto del mondo. La parola guerra riesce infatti a condensare, meglio di qualunque altra, i concetti di dolore, sacrificio, nemico, lotta, privazione e morte, tutti aspetti che compongono la straziante narrazione quotidiana di questa pandemia da Covid-19.
Non c’è da stupirsi, la metafora è da sempre uno dei più preziosi e utilizzati strumenti che la lingua ci mette a disposizione per veicolare, in modo istantaneo e spesso suggestivo, un significato. E in effetti, sono immagini straordinarie (nell’accezione propria di “fuori dall’ordinario”) quelle rubate nelle terapie intensive dei nostri ospedali, con i medici e gli infermieri, spesso attrezzati alla ben e meglio con mezzi di protezione inadeguati, che si affannano per cercare di salvare il maggior numero di vite possibile rischiando la propria incolumità. Fanno pensare alla guerra anche i tanti ospedali da campo che si stanno costruendo in tutto il mondo per affrontare l’emergenza sanitaria e certe manovre economiche che si pensa di mettere in campo rimandano a un’epoca di ricostruzione postbellica. Negli strumenti di contrasto, i due fenomeni mostrano quindi delle similitudini, ma la loro essenza è profondamente diversa, come spiega il sociologo Fabrizio Battistelli in un interessante articolo pubblicato recentemente su Micromega.
Non si fanno sofismi quando si tenta di puntualizzare le differenze tra la pandemia che stiamo affrontando e una condizione di guerra, né tantomeno si vuole sottovalutare la drammaticità degli eventi o svilire i sacrifici che siamo tutti chiamati ad affrontare ora e nei mesi che seguiranno. Si cerca invece di fare chiarezza non solo perché ognuno di noi possa avere piena consapevolezza di ciò che sta vivendo ma anche per evitare il rischio di appiattirci, di rassegnarci a questa condizione di sospensione delle nostre libertà personali, per evitare che tutto ci sembri lecito, come in guerra. Perché il rischio attuale è che gli Stati si trincerino (ecco un’altra bella metafora bellica) dietro i propri confini e, in nome della lotta al nemico da sconfiggere e in un quadro di politiche nazionaliste, sospendano di fatto la democrazia (come è già accaduto nell’Ungheria di Orbán), giustificandosi nel segno di una eccezionalità da “stato di guerra”.
Sono passati non molti anni dalla fine dell’ultima guerra mondiale, settantacinque per essere più precisi, una inezia nella scala dei tempi storici. Molti degli ultimi testimoni di quella guerra ci stanno lasciando in queste settimane, colpiti più degli altri dal Coronavirus. Con loro se ne va un pezzo della nostra memoria storica, un patrimonio di racconti e insegnamenti insostituibile, una storia che costituisce le fondamenta stesse della Repubblica democratica in cui siamo nati e cresciuti. Per nostra fortuna, alcuni di quelli che hanno vissuto, subito e in molti casi combattuto quella guerra dalle cui macerie è nata l’Italia che conosciamo, hanno tradotto quella condizione in letteratura consegnandoci alcuni dei romanzi più belli del nostro ‘900. E allora quale momento migliore di questo per leggere o ri-leggere quelle pagine, per ascoltare quelle voci e cercare di capire cosa hanno da dirci, ancora, oggi?
Cesare Pavese è uno dei massimi protagonisti di quella stagione letteraria, un “indiscusso capofila del neorealismo italiano” (Contini), poeta e scrittore che, pur non prendendo parte al conflitto, ha saputo raccontare in quegli anni la condizione della guerra. Un intellettuale che proprio per il suo non agire nella guerra è riuscito a sfuggire all’influenza della sua retorica e a guardarla con occhi ben aperti cogliendone tutta la tragicità.
“La casa in collina” di Cesare Pavese
La casa in collina scritto tra il 1947 e il 1948 e pubblicato alla fine dello stesso anno insieme a Il carcere nel volume Prima che il gallo canti, è uno dei suoi romanzi più belli e maturi. Racconta la storia di Corrado, un professore che, dopo la caduta del fascismo, mentre i suoi amici si dedicano alla lotta armata, decide di ritirarsi nella nativa terra delle Langhe, tra le colline in cui è cresciuto, ricercando la pace delle origini, convinto che questa condizione di solitudine lo allontani finalmente da una guerra a cui, in realtà, non può sfuggire.
La storia di Corrado si intreccia a quella del suo autore. Quella di Cesare Pavese è la vicenda di un uomo, “dalla conclusione purtroppo rapida ma non imperfetta” (Contini), che non riesce a prendere parte alla Resistenza e che vive per questo un profondo dissidio interiore, un senso di colpa e di inadeguatezza che contrastano dolorosamente con la sua mitologia della virilità. Una mitologia della virilità che è anche uno degli aspetti di quella letteratura americana che lui tanto amò, che lo influenzò grandemente nello stile e di cui fu meraviglioso traduttore.
“È evidente che la sua periferia subalpina tiene non poco delle megalopoli di Dos Passos, e soprattutto le sue colline si apparentano al “profondo Sud”, ospitando fatterelli di atrocità faulkneriana” (sempre Contini). Dobbiamo a Pavese (e anche a Vittorini) la comparsa della letteratura americana sulla scena letteraria del nostro paese, con i suoi studi e le tante traduzioni su cui giganteggia fra tutte quella monumentale del Moby Dick di Melville. “Idealizzando l’America, – scrive Cesare Segre – che comunque era giustamente vagheggiata come un paese democratico con uomini liberi, e perciò implicitamente confrontata con l’Italia sottoposta a dittatura, Pavese e Vittorini uscivano anche dai ristretti orizzonti della nostra narrativa, e assimilavano un nuovo modo di raccontare, soprattutto di far dialogare”.
Il dialogo di La casa in collina è un dialogo interiore, un soliloquio che racconta un disagio, un conflitto interno nel più vasto conflitto che è la guerra, a cui Corrado cerca invano di sfuggire. Non partecipare attivamente alla guerra non significa non viverne la condizione. Quella condizione di incertezza, delle voci che si rincorrono sugli avanzamenti degli alleati o sugli imminenti rastrellamenti dei tedeschi, dello spostarsi continuamente da un luogo all’altro per paura di essere arrestati, degli allarmi antiaerei e dei bombardamenti, delle notizie sbocconcellate alla radio quando si ha la fortuna di averne una (che differenza con le nostre cronache quotidiane sovraccariche di un eccesso d’informazione, spesso fasulla!). E su tutto la morte che incombe, la morte dei corpi che le campagne restituiscono, i corpi dei compagni e dei nemici che la morte restituisce uguali.
Guardare certe morti è umiliante. Non sono più faccende altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.
La guerra civile che seguì l’8 settembre, raccontata qui da Cesare Pavese, fu una guerra in cui ci si ammazzava anche in famiglia, se uno era fascista e l’altro partigiano. Non c’era una trincea a dividere i due fronti, o una linea, il confine era mobile e l’individuazione del nemico da uccidere poteva passare per una soffiata: il figlio fascista di quel compare si nasconde in un casale o quel gruppo di partigiani è accampato su una certa collina. Vendette, rappresaglie e controrappresaglie alla luce del sole che abbacinava le nostre belle campagne. Cos’è la guerra? Una faccenda tra nemici che si ammazzano, a volte, senza neppure sapere il perché.
Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: – E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.
Possiamo dunque pensare che il nostro oggi sia da considerarsi uno stato di guerra? Nel farlo, non rischieremmo forse di perdere di vista le chiavi per affrontare questi drammatici eventi e cominciare a ricostruire, ovvero l’unità e la coesione sociale? Quel che è certo è che, come in guerra, in questi giorni i morti smettono di essere persone e diventano numeri. Questa è la tragedia. E a noi capita di sentirci mancare la terra sotto i piedi perché sembra che tutto ciò che conoscevamo non debba esistere più o sia destinato a modificarsi irreversibilmente. Non sappiamo se andrà effettivamente così, ma intanto galleggiamo in questo stato di incertezza mentre si ipoteca il nostro futuro.
E forse è qui che chi, come Cesare Pavese, ha vissuto la guerra nel nostro paese e ce ne ha lasciato (letteraria, splendida) traccia può aiutarci a comprendere meglio il momento che stiamo vivendo. E allora interpelliamole quelle voci e prestiamogli orecchio, perché il racconto di quella condizione, anche se non è la nostra, possa aiutarci in qualche modo a sentirci meno soli in questo dolore. In fondo, non è questo che fa la letteratura?
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