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Fran Lebowitz: una vita a New York, il racconto irresistibile sulla New York che non c’è più

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Dopo La parola a Fran Lebowitz (Public Speaking) del 2010, Martin Scorsese torna a parlare della sua amica e lo fa con una docuserie esilarante in sette puntate, Fran Lebowitz: Una vita a New York (Pretend It’s a City), distribuita da Netflix.

Chi è Fran Lebowitz? Per i non americani il suo nome può non dire granché. Forse qualcuno se la ricorda nel ruolo della giudice severa e impassibile di fronte a Leonardo Di Caprio/Jordan Belfort in The Wolf of Wall Street, in una delle sue rare apparizioni come attrice. È difficile definire un personaggio come Fran Lebowitz. Scrittrice, intellettuale, ebrea, atea, omosessuale, umorista, fumatrice incallita, osservatrice acuta della società. Qualche cenno biografico: si trasferisce a New York dal New Jersey a diciotto anni e per vivere fa ogni tipo di lavoro, compresa la tassista, quando di tassiste a New York non ce n’era e i colleghi maschi ti guardavano con sospetto. A vent’anni comincia a scrivere per Interview, lo storico giornale fondato da Andy Warhol, con cui racconta che non andava d’accordo (“Se la cava molto meglio da morto”). È balzata all’attenzione del pubblico con il suo primo libro Metropolitan Life del 1978 a cui è seguito il secondo, Social Studies, del 1981, due raccolte di articoli sul vivere metropolitano, indagato e raccontato con una vena sardonica e irriverente che le è valsa l’appellativo di nuova Dorothy Parker. Confessa di soffrire da decenni di un terribile blocco dello scrittore e dal 1994, data di pubblicazione del suo ultimo libro (Mr. Chas and Lisa Sue Meet the Pandas scritto per i bambini), nonostante abbia cominciato diversi progetti, non è più riuscita a terminarne uno. Sono famose le sue similitudini argute e il suo istinto per le massime lapidarie (“Al mondo ci sono due tipi di persone. Il tipo che pensa di avere abbastanza soldi e il tipo che i soldi li ha”).

Fran Lebowitz
Fran Lebowitz insieme a Andy Warhol a New York nel 1977 (Photo by Richard E. Aaron/Redferns)

Fran Lebowitz: una vita a New York, la docuserie di Martin Scorsese

Fran Lebowitz: una vita a New York è strutturata come un sitcom, con episodi di breve durata (circa 30 minuti) e ambientazioni ricorrenti (come il The Players Club di New York), ma al posto delle risate registrate ci sono quelle di Martin Scorsese che ride a crepapelle ogni volta che l’amica se ne esce con una delle sue famose battute lapidarie e che rappresenta uno degli aspetti più spassosi della serie. Ogni episodio ruota intorno a un argomento specifico, i soldi, il trasporto pubblico, i libri, su cui si innestano i ricordi e le riflessioni di Fran Lebowitz, a cui Scorsese intervalla spezzoni di film, frammenti di interviste, vecchie pubblicità. Rivediamo così Marvin Gaye che incide un pezzo con il suo gruppo, Serge Gainsbourg che brucia una banconota da 500 franchi in tv, Jesse Owens alle Olimpiadi di Berlino del 1936, una scena da Il gattopardo di Visconti. Un montaggio simbolico.

Ma la protagonista assoluta è Fran Lebowitz e ciò che rende irresistibile la docuserie è lei, la sua impagabile ironia, il suo pensiero anticonformista, non allineato, libero. Fran Lebowitz: una vita a New York è uno show a cui lo spettatore è invitato a partecipare, come a uno degli esilaranti incontri con il pubblico da tutto esaurito della protagonista. La conosciamo attraverso le domande che le rivolgono Scorsese e alcuni intervistatori d’eccezione come Alec Baldwin, Spike Lee e Olivia Wilde. Vediamo anche un giovane David Letterman e una insolita (e commovente) apparizione della grande Toni Morrison, costretta a sputare l’acqua nel bicchiere per le troppe risate. Le citazioni cinematografiche nella serie, ovviamente, sono numerose (è Scorsese, d’altra parte) e tra le più evidenti c’è la musica di Nino Rota tratta da La dolce vita di Fellini che accompagna i titoli di coda di ogni episodio. La serie si apre e si chiude con una scena da Come sposare un milionario: l’orchestra attacca all’inizio del primo episodio e alla fine del settimo c’è il gran finale con l’inchino del direttore. Che cos’è Fran Lebowitz: una vita a New York se non uno spettacolo?

New York

La coprotagonista della docuserie è, ovviamente, la città di New York, con il suo caos, le sue contraddizioni, il suo essere una città in cui nessuno può permettersi di vivere ma, chissà come, è abitata da otto milioni di persone. Una città difficile, in cui ogni piccola azione, come quella di portare il bucato in lavanderia, diventa un’impresa.  “Ogni cosa a New York è come L’anello del Nibelungo”, ci dice la Lebowitz in una delle sue sintesi perfette. Chi meglio di due newyorkesi doc come Fran Lebowitz, che nella Grande Mela si trasferì a diciotto anni con 200 dollari in tasca per non lasciarla mai più, e Martin Scorsese da Little Italy che a New York ci ha ambientato la maggior parte dei suoi capolavori, per raccontare la città, la sua vita e i tanti cambiamenti che l’hanno attraversata? Le storie e gli aneddoti si susseguono, memorie da un’altra New York, sporca e piena di topi ma originale e eccitante, dove i palazzi crollavano così, da un giorno all’altro, in cui poche case avevano i riscaldamenti e si andava al Max’s a rimorchiare qualcuno che il riscaldamento ce l’aveva per poter passare la notte a casa sua.

Una delle immagini più suggestive evocate dalla Lebowitz sulla New York degli anni ’70 è quella di una città piena di giornali, che tutti leggevano la mattina e abbandonavano tra i rifiuti per poi ritrovarseli ovunque, sotto i piedi, in metropolitana, per aria portati dal vento. Vengono in mente i film della New Hollywood, Taxi Driver, Un uomo da marciapiede, Il braccio violento della legge. Oggi nessuno legge più i giornali, le persone sono tutte incollate agli schermi dei loro smartphone e non guardano dove vanno. “Pretend it’s a city!” intima una furibonda Fran Lebowitz, con la frase che dà il titolo originale alla serie, alle persone che si comportano come se a New York ci vivessero da sole. “Mi colpisce che ogni giorno migliaia di persone non vengano sterminate sulle strade di New York” confessa lei che non ha mai avuto un cellulare, un iPad, un portatile e neppure una macchina da scrivere perché quando scriveva lo faceva con carta e penna. Fran Lebowitz si considera l’unica persona di New York che ancora guarda dove sta andando, e proprio grazie a questo può mostrarci tutto quello che c’è sul selciato della città: graffiti, pubblicità e un gran numero di placche a cui in pochi fanno caso. Placche commemorative della costruzione di edifici, dichiarazioni di proprietà, citazioni di scrittori. Una gita a New York non scontata.

Fran Lebowitz
Fran Lebowitz e Martin Scorsese in un momento della serie

Seguiamo Fran Lebowitz aggirarsi nella sua città, lungo le strade affollatissime e congestionate dal traffico, con lo sguardo scettico e severo verso i suoi concittadini, l’incedere sicuro e un po’ pesante e gli abiti maschili su misura, le camicie Brooks Brothers e i gemelli gioiello creati da Alexander Calder. Una donna disincantata che trova piacere nelle cose belle, che alle persone preferisce i libri ma ama le feste, una donna cinica che ha scritto un libro per bambini, difficilmente incasellabile, non scontata, che non ha alcun potere ma è “piena di opinioni” e è un piacere sentir parlare a ruota libera con il suo gusto naturale per il politicamente scorretto.

Fa una certa impressione vederla camminare in strade piene di gente, adesso che New York e l’America intera piangono migliaia e migliaia di morti e la città ha vissuto il lockdown con le strade deserte e i locali chiusi, calma e immobile come il plastico della città creato da Robert Moses e ospitato nel Queens Museum, dove Scorsese ha girato parte della sua lunga intervista. L’emergenza pandemica è scoppiata quando la docuserie era in fase di montaggio. È stata ultimata in una sala completamente sterilizzata, con i tecnici a debita distanza e con la mascherina.  La consapevolezza di un epocale cambiamento nel frattempo intercorso dona maggiore potenza alle immagini che vediamo e una doppia nota malinconica a una serie pure divertentissima. Una malinconia ispirata dal ricordo di una New York che non c’è più. Non solo, ovviamente, quella degli anni ’70, ma anche quella affollata e promiscua in cui, meno di due anni fa, si muoveva Fran Lebowitz ripresa da Martin Scorsese.  Era il 2019. E sembra passato un secolo.

Lei è convinta che tutto sarà di nuovo come è stato, una volta passata l’emergenza. Le persone ricominceranno a uscire e riempiranno i locali come sempre. Times Square tornerà a essere una specie di inferno sulla terra. La stazione centrale e gli aeroporti saranno ancora affollati di viaggiatori. E i turisti a New York continueranno a fermarsi in mezzo alla strada per consultare mappe e navigatori, bloccando il passaggio. E Fran Lebowitz continuerà a detestarli. La vita, insomma.

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