CinemaI care a lot e Capone, le recensioni

I care a lot e Capone, le recensioni

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Tra le nuove uscite dell’ultima settimana sulle piattaforme digitali e streaming ci sono due film molto attesi. I care a lot, disponibile su Prime Video dal 19 febbraio, con una grande Rosamund Pike candidata ai prossimi Golden Globe e Capone di Josh Trank, su Sky dal 20 febbraio, sugli ultimi giorni di vita di Al Capone, qui interpretato da un Tom Hardy mimetico, al limite dell’overacting, ma che non riesce purtroppo a risollevare un film strutturalmente fragile.   

I care a lot

Che Rosamund Pike fosse particolarmente a suo agio nell’interpretazione di donne mefitiche lo avevamo già capito vedendo la Amy Dunne di Gone Girl, con la Marla Grayson di I care a lot l’attrice britannica ci regala un personaggio sfacciatamente amorale e divertente, in una commedia dark in cui, per usare una locuzione poco raffinata ma puntuale, il più pulito ha la rogna. 

Se il mestiere di truffatore è da considerarsi poco nobile, quello di truffatore di vecchietti trova facilmente posto sul podio delle professioni più moralmente riprovevoli che si possano immaginare. Adocchiare anziani indifesi e preferibilmente senza famiglia, con la complicità di medici corrotti, e farsi nominare loro tutore legale per poi rinchiuderli in un ospizio e sottrargli i risparmi di una vita è il mestiere di Marla Grayson, che dirige una florida attività insieme alla, altrettanto spregiudicata, fidanzata Fran (Eiza González). Bellezza algida, vestiti costosi, capelli composti in un taglio perfettamente geometrico, eloquio disinvolto, atteggiamento affidabile e rassicurante, è così che Marla Grayson convince i giudici ad affidargli i pazienti, nel momento più delicato dell’intera procedura, quello che rende tutto il suo operato perfettamente legale. Una volta ottenuta la tutela, il gioco è fatto.

Nessun rimorso per quegli anziani che vengono sradicati dalla loro vita e rinchiusi in una residenza senza alcun contatto con il mondo esterno: per lei sono polli da spennare. Il suo unico pensiero è arricchirsi in questo mondo che è una giungla, dove se vuoi farti strada e avere successo devi avere la forza di un leone. Marla Grayson si autodefinisce una “fucking lioness” e questo è il suo sogno americano. Nel suo mestiere le capita ogni tanto di scovare una “ciliegina”, ovvero una persona anziana, ricca e senza famiglia. La concorrenza per questo tipo di cliente è spietata ma lei sa come oliare i meccanismi. Solo che la “ciliegina” Jennifer Peterson (Dianne Wiest) non è la vecchietta sola e indifesa che sembra essere, ma la persona più cara di uno spietato criminale membro della mafia russa, Roman Lunyov (Peter Dinklage), che farà di tutto per liberarla.  

Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare, si dice. Se nella prima parte, I care a lot è la descrizione perfidamente divertita dell’attività di Marla, non senza una vena di critica sociale (è il sistema che permette a Marla di perpetrare i suoi misfatti), nella seconda parte il film vira verso il thriller e la sua protagonista si rivela ben più cattiva e implacabile di quanto il suo ruolo facesse pensare inizialmente. Se all’inizio le sue controparti non sono che anziani indifesi facilmente calpestabili (il che rende il suo personaggio particolarmente sgradevole), con l’entrata in scena di un vero antagonista, lo spietato Peter Dinklage, Marla Grayson dimostra di essere una vera leonessa, la sua chioma bionda perfettamente scolpita si sciupa e si arruffa mentre lei serra il morso sulla sua preda.

I care a lot
Rosamund Pike in una scena del film

A proposito di prede e di vittime, l’aspetto più convincente di I care a lot, scritto e diretto da J Blakeson, è proprio quello di non avere personaggi con cui lo spettatore riesca a immedesimarsi, con cui poter empatizzare. In primo luogo, perché il film non punta sulla verosimiglianza ma sul divertimento, con alcuni tratti, in particolare nel personaggio interpretato dal sempre ottimo Peter Dinklage, volutamente cartooneschi. In secondo luogo, perché in questo piccolo affresco poco edificante non ci sono i buoni, né tantomeno gli eroi. Anche l’anziana Jennifer Peterson, che qui dovrebbe essere la vittima, è tutt’altro che remissiva, anzi rivela un certo grado di malvagità e spietatezza, per la cui resa alla grande Dianne Wiest basta un solo sguardo; né si empatizza con le decine di vecchietti truffati, qui ritratti come semplici animali da mungere.

Tutto in I care a lot è algido come la sua protagonista, lo è la regia di J Blakeson, che si diverte (fin troppo) con il suo compositore a montare le sequenze dei tanti successi professionali di Marla, e lo è ancora di più (e più efficacemente) la sua sceneggiatura, con un finale azzeccatissimo che lascia il giusto amaro in bocca.

Capone

Come I care a lot, anche Capone di Josh Trank ha per protagonista uno degli attori più dotati della sua generazione. Ma se il lavoro di Rosamund Pike ha avuto il supporto di una solida sceneggiatura, e in generale di una visione cinematografica ben inquadrata, la bravura di Tom Hardy nell’interpretare il ruolo iconico del famigerato gangster non è sufficiente per la buona riuscita del film, su cui hanno probabilmente pesato in senso negativo la genesi travagliata e le difficoltà nella distribuzione.

Il progetto nasce nel 2016 con il titolo, più centrato, di Fonzo. Josh Trank, che con il suo esordio del 2012 Chronicle aveva fatto gridare al nuovo enfant prodige di Hollywood, era appena uscito dal clamoroso flop della sua seconda prova da regista, Fantastic 4 – I Fantastici Quattro. Il suo tentativo di riguadagnare la fiducia, non solo del pubblico ma anche dei produttori, si concentra quindi intorno al progetto di portare sullo schermo l’ultimo anno di vita del criminale più famoso della storia, piegato dalla sifilide e dalla demenza senile, volendo ribaltare così l’immagine del Capone spietato e implacabile ben radicata nel nostro immaginario collettivo. Un buon soggetto a cui Josh Trank si dedica anima e corpo, firmando sceneggiatura, regia e montaggio e finendo per confezionare un film forse troppo ambizioso, che si perde nei suoi stessi propositi e alla fine non sa dove andare a parare.

Fonzo è il nome con cui Al Capone, all’anagrafe Alphonse Gabriel Capone, si faceva chiamare dai suoi negli ultimi anni della sua vita. Imprigionato nel 1931 per evasione fiscale, torna in libertà nel 1939 per buona condotta con in tasca una diagnosi di sifilide contratta in giovanissima età. Il famigerato boss di Chicago ideatore della strage di San Valentino, trascorre gli ultimi anni di vita nel rifugio dorato della sua villa in Florida e muore nel 1947 a soli 48 anni, con il corpo e la mente consumati dalla malattia.

In Capone il corpo è quello di Tom Hardy, un corpo d’attore dalla fisicità debordante, incredibilmente espressiva. Tom Hardy è uno di quegli attori a cui basta uno sguardo, una posa o un grugnito per rendere un personaggio, lo abbiamo visto in Il cavaliere oscuro – il ritorno e in Dunkirk. Anche in Capone, nonostante la pesantezza del trucco e il suo italiano poco credibile, Tom Hardy regala un’ulteriore prova delle sue capacità attoriali creando un personaggio corroso e marcio, tormentato dai suoi fantasmi, che se la fa addosso ed è vulnerabile ma da cui traspare ancora quel senso di pericolo e di minaccia che portarono Al Capone a diventare ai tempi d’oro del gangsterismo americano il nemico numero uno della nazione.

Capone
Tom Hardy in una scena del film

Il problema del film non è il corpo di Capone ma la sua mente, a cui Josh Trank avrebbe dovuto dare forma, se questo era il film che si proponeva di fare. Invece Trank è grottesco, caricaturale, poi lynchiano, poi brutale, poi persino horror. Apre parentesi, come quella sul figlio illegittimo di Fonzo, che non vengono ben sviluppate. Imbocca sentieri (il rapporto con l’FBI) che non portano da nessuna parte. Vorrebbe far ruotare la storia intorno ai 10 milioni di dollari che Al Capone avrebbe nascosto da qualche parte, ma poi non lo fa. Spreca un attore come Kyle MacLachlan, qui nel dimenticabile ruolo del dottore di Capone.

Proprio per questa sua mancata centratura è difficile dire cosa sia Capone. Non un biopic, perché solo Linda Cardellini (nel ruolo della moglie di Capone, Mae) sembra dare quel tocco di vera umanità al film. Non un film pienamente surreale, nonostante le visioni del protagonista e le apparizioni di Matt Dillon. Forse, Capone si può definire semplicemente come un’occasione mancata, uscita dalle mani di un regista di talento che ancora non riesce a trovare la quadra. Ed è un peccato, perché sarebbe stato bello partecipare a un viaggio disturbante nella mente devastata di un criminale morente.

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