Girato in 14 giorni in un’unica location, la splendida Caterpillar House in California, con un budget limitatissimo anche per un prodotto indie (2,5 milioni di dollari), Malcolm & Marie è il primo film hollywoodiano concepito e realizzato in piena pandemia, con due soli attori protagonisti (qui anche in veste di produttori) e in una logica da lockdown, con il cast e la troupe isolati per tutto il tempo delle riprese. E dimostra che è sempre possibile fare cinema, se sai come farlo. Su Netflix dal 5 febbraio.
La storia di Malcolm e Marie
Un giovane regista (John David Washington) torna a casa con la fidanzata (Zendaya) dopo la premiere del suo ultimo film accolto con entusiasmo da pubblico e critica. Malcolm è euforico per il successo ottenuto, anche se non rinuncia a polemizzare con una certa critica bianca rea di etichettare come “politica” ogni opera pensata da un artista di colore. Marie appare da subito inquieta, è arrabbiata perché Malcolm non ha fatto il suo nome durante il discorso di ringraziamento, nonostante il film sia in parte ispirato alla sua vicenda personale. Da qui ha inizio una lunga notte, tra litigi, riappacificazioni, verità messe a nudo e lunghi discorsi sul cinema.
Per la sceneggiatura di Malcolm & Marie Sam Levinson si è ispirato a un episodio della sua vita, di quando durante la premiere di Assassination Nation si è dimenticato di ringraziare la moglie Ashley che del film era anche produttrice. Se in quel caso, ha raccontato il regista, ne è scaturita una discussione serena e pacifica, in Malcolm & Marie lo sgarbo diventa pretesto per portare alla luce frustrazioni e velleità di due personalità molto forti, che si scontrano ripetutamente senza che nessuno dei due personaggi riesca a fare un passo indietro. Lui è un borghese pieno di sé che si gode l’ebbrezza di vedere finalmente riconosciuto il suo talento, lei una frustrata con un passato turbolento che non ha ancora trovato la sua strada e pensa di meritare di più (e probabilmente non ha torto). Le loro ragioni, che emergono nel racconto della genesi di un film e di ciò che la ispira, diventano esse stesse un pretesto, utilizzato dal regista per dire la sua sul cinema e sulla critica cinematografica.
Il bianco Sam Levinson, che scrive e dirige Malcolm & Marie mette a nudo la tendenza, da parte di una certa critica, a nascondere dietro il politicamente corretto un razzismo radicato e si direbbe inconsapevole. Nella bella e lunga sequenza iniziale, sulle note di Down And Out in New York City di James Brown, Malcolm stigmatizza i complimenti ricevuti da una critica cinematografica (bianca) del «Los Angeles Times», che dopo la visione del film lo ha indicato come il nuovo Spike Lee, o il nuovo Barry Jenkins. Perché non il nuovo William Wyler?, si chiede lui. Perché un regista di colore deve per forza fare film politici? Perché un regista nero non può semplicemente raccontare una storia, come qualsiasi altro, assecondando il suo impulso e la sua sensibilità verso un genere piuttosto che un altro, verso un tema piuttosto che un altro? Ciò che guida un regista nella realizzazione di un film, dice Malcolm, è un mistero. E anche questo concorre a creare la magia del cinema. Un’analisi forse un po’ semplicistica ma che riesce a cogliere uno dei tanti, subdoli aspetti in cui ancora si manifesta il razzismo (in buona o malafede che sia).
Tra le pieghe del discorso sul cinema, che è il nucleo attorno a cui si costruisce la vicenda di Malcolm & Marie, si intrecciano le dinamiche relazionali dei due protagonisti che mettono in scena una lunga serie di montagne russe emotive, con almeno un paio di giri della morte che in alcuni momenti sembrano portare il film verso direzioni inaspettate, per poi ricondurre il tutto in una “normale” dinamica della lite. Recriminazioni, piccole vendette, dichiarazioni d’amore, pianti, urla, risate: la complessità di una relazione, condensata in un’ora e quaranta. Zendaya e John David Washington sorprendono e dilettano come nuova coppia cinematografica super cool. Sono loro il vero punto forte del film, che rischia di venire troppo appesantito dai lunghi monologhi polemici di Malcolm nei confronti della critica cinematografica, piuttosto supponenti e comunque poco appetibili per un pubblico di non addetti ai lavori.
A vedere le performance di entrambi gli attori appare incredibile che nessuno dei due nomi, e in particolare quello di Zendaya che dopo Euphoria torna a lavorare con Levinson regalandoci una splendida prova d’attrice, sia stato incluso tra i nominati per i prossimi Golden Globes e per i SAG Awards. Per questi ultimi si è preferito inserire il nome di Amy Adams, che è indiscutibilmente una grande attrice ma che in Elegia americana di Ron Howard, per cui ha ricevuto la candidatura, è apparsa decisamente sopra le righe.
Malcolm & Marie, un omaggio al cinema
Se la sceneggiatura di Malcolm & Marie ricalca le dinamiche di una lite con un’autenticità che ci porta a riconoscerci in certi momenti nell’uno o nell’altro ruolo (anche nella ripetitività delle provocazioni con cui essa si protrae potenzialmente all’infinito), la forma che Sam Levinson, insieme al suo direttore della fotografia Marcell Rév, ha voluto dare al suo film appare come uno squisito omaggio al cinema, a partire dall’utilizzo del bianco e nero e della pellicola. Levinson, che è molto bravo a sfruttare spazi e geometrie dell’unica location, fa muovere continuamente la macchina da presa con ripetute carrellate soprattutto nella prima parte del film, indugia su primi e primissimi piani optando per un montaggio che nelle scene più rilassate tra i due protagonisti strizza l’occhio alla Nouvelle Vague, ottenendo un risultato antinaturalistico che sottolinea la distanza, se non nella sostanza certamente nella forma, di Malcolm & Marie da una piece teatrale a cui verrebbe spontaneo accostarlo.
In un film che parla di cinema le citazioni sono ovviamente moltissime (tra esse anche il capolavoro di Pontecorvo La battaglia di Algeri), e sono più o meno esplicite. Nella scena iniziale, mentre lui parla e lei è in bagno non si può non rivedere Tom Cruise e Nicole Kidman in Eyes Wide Shut di Kubrick. Così come appare inevitabile, per l’impianto e l’uso del bianco e nero, il rimando a Chi ha paura di Virginia Woolf? di Mike Nichols, tratto dal dramma di Edward Albee. Lì c’erano due leggende assolute del cinema, Liz Taylor e Richard Burton, qui due giovani promesse; lì la rabbia poco edificante di una relazione consumata, qui la passione viva di un uomo e una donna nel pieno della loro storia d’amore; lì il cineasta intellettuale per eccellenza nel suo folgorante esordio, qui un giovane regista figlio d’arte (il padre è il Barry Levinson di Rain Man e Good Morning, Vietnam) che è cresciuto a pane e cinema e si vede.
Malcolm & Marie può essere considerato come mero esercizio di stile, il suo sceneggiatore e regista come supponente e verboso, ma se questo è il primo film che esce da Hollywood dopo la crisi pandemica allora non possiamo che ben sperare sul futuro del cinema.
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