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La tigre bianca: this is India

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La tigre bianca (The White Tiger) è la nuova produzione originale Netflix. L’avvincente parabola, ambientata nell’India contemporanea, di un uomo cresciuto nella convinzione di essere nato per servire ma che non rinuncia al suo diritto all’autodeterminazione.

La storia di Balram Halwai

Balram è un ragazzino intelligente e sveglio che vive con la famiglia in un villaggio molto povero nel nord dell’India dove, per sopravvivere, anche i bambini frantumano e trasportano pezzi di carbone. Costretto a lasciare gli studi in cui eccelleva, Balram comincia fin da piccolo a lavorare insieme al fratello per poche rupie, crescendo con la convinzione che, per chi appartiene a una casta inferiore come lui, nel suo paese non ci sono possibilità di riscatto e ci si deve rassegnare a una vita da servi. Ed è proprio quello che Balram, ormai divenuto uomo (Adarsh Gourav), si propone di fare quando, di buon grado, chiede lavoro alla ricca famiglia della zona, proprietaria dei giacimenti di carbone, che da anni taglieggia e maltratta i poveri abitanti del suo villaggio, compresi i suoi famigliari. Il figlio minore del potente capofamiglia, Ashok (Rajkummar Rao), è appena tornato dall’America insieme alla bellissima ed emancipata moglie Pinkie (Priyanka Chopra Jonas), ed è in cerca di un autista.

Balram, con spirito d’iniziativa e atteggiamento rispettoso, non privo di una certa furbizia, riesce a farsi assumere. Fin da subito, Balram si dimostra ben felice di aver trovato finalmente un padrone da servire, perché è con questa mentalità che è stato cresciuto. Per Ashok e Pinkie, che con lui si dimostrano ben più gentili del resto della famiglia, Balram è disposto a fare tutto, persino incolparsi di un crimine che non ha commesso. Con il passare del tempo, però, e con il protrarsi dei soprusi e delle ingiustizie di cui è costantemente vittima, si sveglierà in lui un desiderio di libertà e di riscatto per il cui ottenimento, in un paese come il suo, non sono concesse vie pacifiche. Riuscirà a diventare un imprenditore di successo e racconterà la sua vita in una lunga lettera al premier cinese arrivato in India per una visita ufficiale.

La tigre bianca, una produzione coraggiosa con qualche difetto

Ramin Bahrani (A qualsiasi prezzo, Fahrenheit 451) scrive e dirige La tigre bianca partendo dall’omonimo romanzo di Aravind Adiga, vincitore del Man Booker Prize nel 2008. Un romanzo che si era imposto all’attenzione della critica per la sua capacità di raccontare le tante contraddizioni dell’India contemporanea, un paese che è ormai una delle grandi potenze mondiali ma che ha ancora al suo interno vastissime aree, soprattutto rurali, poverissime; un paese in cui non si riesce a sradicare, nonostante la sua abolizione ufficiale sancita dalla Costituzione indiana del 1950, l’antico sistema delle caste così profondamente impiantato nella società da essere di fatto ancora vigente. 

La tigre bianca
Adarsh Gourav in una scena del film

Balram fa parte della casta dei servitori, l’ultima delle quattro caste in cui è diviso il sistema. Il suo destino è segnato, non può emanciparsi dalla sua umile condizione perché le regole sociali glielo impediscono, perché non esiste l’ascensore sociale. È davvero difficile per chi non è nato all’interno di quel sistema (anche se, ovviamente, nessun paese è estraneo a problemi di ingiustizia sociale) riuscire ad afferrare completamente, oggi, la realtà di una esistenza non soggetta a un principio di autodeterminazione, ma già predestinata. L’aspetto più interessante del film è proprio l’indagine della psicologia di Balram: lui è convinto, non solo di dover fare, ma di essere un servo, e per riuscire a liberarsi dal suo destino già segnato deve estirpare dalla sua mente quell’idea. Il suo allontanamento da quella realtà è un graduale e sofferto risveglio, da cui poi emerge una (quasi inevitabile) rabbia. 

A portare sullo schermo questo personaggio è un giovane e bravissimo attore indiano, Adarsh Gourav, capace di rendere attraverso le espressioni del suo volto, su cui il regista insiste spesso, anche le più piccole sfumature del personaggio e di donargli quei tratti che ce lo rendono a volte tutt’altro che piacevole, come il suo servilismo mellifluo e la sua mancanza di empatia nei confronti di altri poveri disgraziati come lui. E nell’antipatia che in certi casi proviamo nei suoi riguardi, e in quelli della nonna avida e inclemente, veniamo in un certo senso coinvolti anche noi nella guerra tra poveri che va in scena in quei momenti. Una sensazione già provata nella visione di Parasite, ma a cui manca il genio creativo di Bong Joon-Ho.

La tigre bianca è una coraggiosa produzione Netflix (tra i produttori esecutivi figurano Ava DuVernay e la stessa Priyanka Chopra), la storia raccontata è una storia importante per molti motivi, ma al film non mancano i difetti, a partire da un utilizzo eccessivo del voice over che soprattutto nella prima parte appesantisce la narrazione e la rende troppo didascalica. Ramin Bahrani, regista americano di origini iraniane, tenta di unire il punto di vista indiano a quello americano, rappresentato qui soprattutto dalla figura di Pinkie, che si oppone all’atteggiamento discriminatorio della famiglia di suo marito nei confronti di Balram (non senza ipocrisie) e tiene alta la bandiera americana difendendo il principio dell’autodeterminazione, sacrosanto negli Stati Uniti. All’India invece non si fanno sconti (eredità del romanzo da cui il film è tratto), descritta come una società in cui i ricchi calpestano i poveri e i politici (corrotti) calpestano i ricchi.

La tigre bianca
Adarsh Gourav, Priyanka Chopra e Rajkummar Rao in una scena del film

Sarebbe stato interessante approfondire alcuni temi, qui appena sfiorati, come l’intolleranza religiosa, soprattutto nei confronti dei musulmani, in una nazione che è invece vista (erroneamente) dall’opinione pubblica internazionale come molto pacifica. Gli episodi di violenza di massa contro le minoranze cristiane e musulmane da parte di estremisti indù hanno lasciato sul campo migliaia di vittime e feriti e a più di 70 anni dalla sua indipendenza appare chiaro che l’India non è ancora riuscita a diventare quella nazione laica e tollerante che sognava Gandhi (lui stesso assassinato da un fanatico indù).

Ma ne La tigre bianca l’India non viene banalizzata. La regia di Ramin Bahrani è una regia classica, senza grandi guizzi ma onesta, che guarda all’India povera evitando quella estetizzazione voyeuristica della miseria vista nel The Millionaire di Danny Boyle. Il problema del film a nostro avviso è nella sua struttura: si parte dalla fine, vediamo già il Balram imprenditore di successo che comincia a raccontare la sua storia al primo ministro cinese e lì si torna, in un finale un po’ frettoloso (che strizza l’occhio a Spike Lee). Ovviamente il twist c’è, e non lo sveliamo per non compromettere la visione, ma proprio perché conosciamo già la fine, al twist si poteva dare maggiore risalto. Sarebbe stato più interessante continuare a vedere un Balram in conflitto, anziché quello risolto, serafico e sicuro di sé del finale. Perché è nel suo conflitto che c’è il film.

Un film, comunque, da vedere.

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