Il 30 ottobre Sky Atlantic ha messo in onda gli ultimi due episodi della prima miniserie in otto puntate diretta da Luca Guadagnino, We Are Who We Are, prodotta da Wildside, The Apartment e Small Forward per Sky Studios e HBO. Un romanzo di formazione libero e anticonformista come i ragazzi che racconta. Una ulteriore conferma dell’abilità e della sensibilità di uno dei nostri migliori registi.
We Are Who We Are: la storia
L’adolescente americano Fraser (Jack Dylan Grazer) si trasferisce da New York in una base militare americana a Chioggia, nella cintura veneziana, insieme alla madre Sarah (Chloë Sevigny), colonnello a cui è stato affidato il comando della base, e alla compagna di lei Maggie (Alice Braga). Fin da subito Fraser appare un ragazzo piuttosto complicato, isolato, legge poesie, ha improvvisi eccessi di rabbia, beve e ha un rapporto di amore-odio con la madre. Il trasferimento da New York al microcosmo di una base militare nella provincia italiana non fa che acuire i suoi disagi. Fin da subito, però, Fraser trova un’alleata nella sua coetanea vicina di casa Caitlin (Jordan Kristine Seamón), un universo di non detti racchiuso nel corpo gracile di una ragazzina con una montagna di capelli neri che veste come un maschiaccio. Mentre Fraser si invaghisce del giovane assistente della madre Jonathan (Tom Mercier), Caitlin appare tormentata dalla propria identità sessuale, non è a suo agio nel suo corpo femminile, è attratta dalle ragazze ma resta dubbiosa e incerta e non riesce a esprimere la propria confusione, soprattutto perché teme la reazione del padre Richard (Scott “Kid Cudi” Mescudi), che adora.
Tra Fraser e Cate nasce immediatamente un rapporto esclusivo, quasi morboso, di difficile definizione. Sono due anime gemelle, che gravitano l’una intorno all’altra. La loro amicizia rompe gli equilibri nel gruppo di amici, giovani militari e figli di militari, che faticano ad accettare le stravaganze del nuovo arrivato, che ha i capelli ossigenati e sembra appena uscito dalla settimana della moda di New York, figlio della discussa nuova comandante. Britney (Francesca Scorsese), il fratello maggiore di Cate Danny (Spence Moore II), Craig (Corey Knight), Sam (Ben Taylor), Enrico (Sebastiano Pigazzi) e Valentina (Beatrice Barichella) sono tutti adolescenti che condividono rabbia, incertezza, ansia di libertà, desiderio, ognuno con la propria personalità, ognuno con le proprie inquietudini che a volte li portano a scelte estreme nella ricerca della propria dimensione. A correre spesso in soccorso di questi adolescenti incasinati, un gruppo di adulti che quanto a complicazioni non appaiono da meno. Sullo sfondo l’America del 2016, con l’elezione di Trump alla Casa Bianca e l’incubo militare in Afghanistan.
Dopo Suspiria, con cui Guadagnino aveva dimostrato di essere un autore coraggioso e anche imprevedibile, il regista torna a raccontare l’adolescenza. E su questo campo, il confronto con lo splendido Call me by your name con cui si è conquistato una meritata fama mondiale (oltre all’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale firmata da James Ivory, su 4 candidature) appare scontato e inevitabile. Le somiglianze ci sono, sia nei temi centrali, l’adolescenza, il sesso e la questione di genere, sia nell’estetica, a partire dalla fotografia luminosa, soprattutto della prima parte, quella del tempo sospeso in una estate perfetta, quasi impalpabile, sognante.
La serie e l’estetica di Guadagnino
Come in CMBYN, anche in WAWWA la natura è protagonista. Gli elementi concorrono a narrare la condizione dei personaggi: il tempo passa e le stagioni cambiano, al sole dell’estate e dei bagni nudi al mare si sostituisce la pioggia che cade incessante e lo Scirocco che sferza la città in autunno, mentre si acuiscono le tensioni nel gruppo; poi arriva l’inverno, freddo e umido, dove tutto finisce. In entrambe le opere si riconosce la predilezione per un paesaggio pianeggiante (in CMBYN la montagna appare nelle scene finali, apice della storia d’amore tra Elio e Oliver e preludio della sua fine), orizzontale come la narrazione di Guadagnino, senza improvvise impennate emotive ma con la costruzione lenta di personaggi e atmosfere che sopravvivono al finire della visione. In WAWWA Guadagnino riesce a trasformare il piatto paesaggio lagunare della periferia veneziana in un elemento misterico, un paesaggio dell’anima in cui l’acqua, con il suo perpetuo fluire, si fa metafora dell’evoluzione dell’età adolescenziale che qui si racconta (non a caso, in CMBYN Guadagnino citava Eraclito, il filosofo dell’eterno scorrere). Allo stesso tempo, calandosi nella dimensione adolescenziale per cui tutto è “qui e ora” e ogni momento è eterno, Guadagnino sceglie di dilatare il tempo con un uso sapiente e ispirato dello slow motion e del fermo immagine, cristallizzando movimenti e sguardi. La sua regia è libera, quasi anarchica, l’inquadratura si ribalta continuamente, la macchina si muove, corre, indaga (e si prende anche una vomitata di Fraser dritta per dritta). È una vera e propria scrittura che interpreta la bella sceneggiatura scritta insieme a Paolo Giordano e Francesca Manieri.
È proprio nella sceneggiatura che si colgono le maggiori differenze tra WAWWA e CMBYN, al di là degli ovvi distinguo tra una narrazione di due ore e una di otto (WAWWA è un film in otto parti). CMBYN è un idillio, l’idillio tra Elio e Oliver e tra Elio e i suoi genitori, non ci sono antagonisti, non c’è conflitto. In WAWWA invece il conflitto c’è. I due giovani protagonisti maschili, Elio e Fraser, caratterialmente non hanno molto in comune, forse solo una certa timidezza che sa diventare sfacciataggine, oltre, ovviamente, al loro essere sessualmente non definiti. Elio è taciturno, raffinato e gentile, ha un ottimo rapporto con i genitori, Fraser tira i capelli alla madre e la chiama strega, è goffo e di primo acchito antipatico, un personaggio respingente. Si potrebbe dire che Fraser è molto più vicino a un adolescente reale di quanto non lo fosse Elio. Ed è un adolescente di oggi, a proprio agio con la sua identità non binaria. Certo, sono pochi gli adolescenti che leggono Joan Didion (e il manifesto di Ultimo tango a Parigi che campeggia nella sua cameretta sembra più una proiezione del regista) ma non si fa fatica a credere nel suo amore per la poesia perché la poesia è la forma che più si addice a dare voce ai turbamenti adolescenziali (quanti di noi hanno scritto poesie a quell’età?). Anche quello di Caitlin è un personaggio difficile, freddo e impenetrabile al primo impatto, a cui lo sguardo della giovane interprete Jordan Kristine Seamón dona un certo grado di enigmaticità.
Attorno ai due protagonisti si muove una serie di personaggi che fanno di WAWWA un racconto corale e che in alcuni casi avrebbero meritato forse un maggior approfondimento. Come il personaggio di Sarah, la madre di Fraser interpretata dalla sempre meravigliosa Chloë Sevigny, la comandante forte e risoluta della base militare che si fa calpestare continuamente dal figlio senza opporre resistenza. Tra i giovani spicca Francesca Scorsese nel ruolo della dolce e disinibita Britney, l’amica sempre pronta e disponibile che si incarica di risolvere gli inevitabili conflitti che nascono nel gruppo, e Spence Moore II nel ruolo di Danny, il tormentato fratello di Cate che cerca la sua dimensione nell’Islam. In generale, quello di WAWWA è un ottimo cast che Guadagnino (ma non potevamo aspettarci altro) sa guidare con grande sensibilità e di cui va a scovare, attraverso l’uso frequente del primissimo piano, ogni piccola sfumatura per consegnarci un ritratto intimista di un momento delicato, eccitante, complicato, estremo come l’adolescenza.
La scelta di ambientare la storia in una base americana è una felice intuizione nata, come ha spiegato il regista, da una conversazione con l’attrice Amy Adams, figlia di un militare e cresciuta nella base americana Ederle di Vicenza. Guadagnino, come già in Io sono l’amore, A bigger splash e in CMBYN riesce a restituirci l’immagine di una Italia affascinante, non semplice cartolina come appare in molte produzioni internazionali, ma viva e misteriosa. Con WAWWA mette in piedi una realtà ibrida a volte destabilizzante persino per chi guarda, figuriamoci per chi ci vive. La base militare di WAWWA è un pezzo d’America innestato nella provincia veneta, un vero e proprio microcosmo con la scuola, i supermercati, la biblioteca e il cinema tutto made in USA. I ragazzi fanno amicizia con i loro coetanei italiani, escono dalla base, organizzano scorribande (bello l’episodio 4 con l’irruzione e la festa in una villa disabitata) sono più aperti e permeabili dei loro rigidi genitori, ma restano adolescenti al cento per cento americani. Le basi sono uguali dappertutto, strutturate allo stesso modo, persino i supermercati vendono gli stessi prodotti e seguono la stessa disposizione, per dare un’illusione di casa a chi si trova lontano da casa. Il risultato non può che essere una scollatura, una realtà sospesa e indefinita che proprio per questo ben si associa ai suoi giovani abitanti, quelli che dalla propria casa generalmente desiderano fuggire.
We Are Who We Are è un racconto libero e disordinato come la grafica del suo titolo, dove caratteri e colori cambiano continuamente e le lettere si sdoppiano, si mischiano, di nuovo metafora dell’incessante divenire che è l’adolescenza. Guadagnino dimostra ancora una volta la sua abilità di regista e la sua sensibilità nel raccontare per immagini una dimensione difficilmente imbrigliabile, caotica, contraddittoria, irripetibile. Per riuscirci si avvale di una sorprendente e ricchissima colonna sonora, fondamentale per il suo affresco, con pezzi tra gli altri di Bowie e Prince, di Klaus Nomi, CCCP e Blood Orange (Devonté Hynes, che appare nell’ultima puntata), Julius Eastman e John Adams, e con musiche originali firmate dallo stesso Devonté Hynes (bellissimo l’ultimo brano che accompagna la folle corsa notturna di Fraser ricordando la dirompenza de La sagra della primavera di Stravinskij).
We Are Who We Are, come dice il suo regista, si riassume nel suo titolo, una esortazione ad accettarci per quello che siamo e a fare lo stesso con gli altri. Ma nel toccare argomenti come l’identità di genere la serie, che lo voglia o no, lancia un messaggio (molto importante in questo momento di dibattito intorno alla legge sulla omotransfobia e sulla misoginia), che le nuove generazioni sembrano aver assimilato, o meglio, che sembra connaturato in loro e che molti adulti dovrebbero invece imparare ad accettare: conta solo l’amore. Assolutamente da vedere.
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