EventiLa parola che sfida i tabù: "Febbre" di Jonathan Bazzi

La parola che sfida i tabù: “Febbre” di Jonathan Bazzi

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Era dal 1999 che non si vedeva una sestina in finale al Premio Strega. Succede di nuovo quest’anno, le maglie della solita cinquina si sono allargate, per l’ottava volta nella storia del premio letterario più ambito e prestigioso del nostro paese, per accogliere tra i finalisti (insieme a qualche polemica) l’acclamato esordio di Jonathan Bazzi, Febbre. Le ragioni dietro la scelta del comitato direttivo del premio, in applicazione di una norma del regolamento che prevede la presenza tra i finalisti di almeno un libro edito da una casa editrice di piccole o medie dimensioni, è ben spiegata qui dal direttore della Fondazione Bellonci e segretario del comitato direttivo dello Strega Stefano Petrocchi, intervistato recentemente da Moondo.

Pubblicato a maggio dello scorso anno da Fandango e già vincitore del premio Libro dell’anno di Fahrenheit-Radio tre e del Premio Bagutta Opera Prima, Febbre ha fatto molto parlare di sé per il coraggio con cui l’autore ha riportato con prepotenza nella narrazione dell’attualità un aggettivo desueto e anacronistico, che avevamo accantonato nel fondo dell’armadio insieme ai Camperos e al Ciesse: sieropositivo.

Il virus dell’HIV, una presenza quasi imprescindibile nel racconto degli ultimi due decenni del secolo scorso, ancor prima che il Covid-19 assurgesse agli onori della cronaca era già considerato dall’opinione pubblica una drammatica parentesi del nostro recente passato, un’emergenza superata, rimossa o relegata in qualche villaggio africano di cui sappiamo poco o niente. Grazie ai progressi della ricerca scientifica abbiamo imparato a convivere con l’HIV e oggi il virus non equivale più a una condanna a morte per chi lo contrae. Quello che resta, però, radicato nella nostra società e forse frutto di anni di incertezza e di cattiva informazione sulle modalità di contagio (un’ignoranza oggi imperdonabile) è il pregiudizio. La sieropositività nel 2020, per molti è ancora un tabù.

Quando Jonathan Bazzi cominciò a pensare all’idea per il suo libro, tra il 2013 e il 2014, non sapeva ancora di essere sieropositivo, voleva raccontare la sua vita a Rozzano, gli anni difficili dell’infanzia e dell’adolescenza in una famiglia complicata nel complicato ambiente dell’hinterland milanese. Pensava di avere per le mani materiale con un alto potenziale narrativo (e non sbagliava, come vedremo più avanti). Ma quando è arrivata la diagnosi nel 2016, dopo settimane passate a combattere con una febbre che non passava mai, ha intuito che poteva far dialogare questi due mondi, il se stesso che nel presente affronta la malattia e il piccolo Jonathan che intanto cresce nell’altra metà del libro fino a diventare l’uomo che in Febbre ci racconta la sua vita. Un montaggio alternato ben orchestrato, scritto con un linguaggio diretto, a volte brutale, con frammenti di dialetto napoletano e milanese a rappresentare le anime della sua famiglia spezzettata.

Jonathan-Bazzi

Jonathan Bazzi è nato nel 1985 a Milano ma è cresciuto nella periferia sud della città, a Rozzano, uno dei tanti comuni dell’hinterland milanese che nella visione amaramente ironica dei suoi abitanti diventano toponimi storpiati riecheggianti l’America. Nella Rozzangeles di Febbre sembra di stare in un romanzo di Ellroy: sparatorie, cadaveri di clochard che riaffiorano dai fiumi, furti, spaccio e prostituzione, una vita nelle case popolari all’ombra della torre Telecom, materiale da rapper. Molte famiglie hanno origini meridionali, “ma Rozzano non è Sud. È una specie di Sud senza il calore del Sud. È un Sud sradicato e reimpiantato in fretta. Un concentrato delle difficoltà delle piccole periferie della Calabria, della Sicilia, della Puglia, della Campania, innestato in mezzo al freddo e alla nebbia della Pianura Padana, in mezzo ai suoi ritmi, ai suoi standard. È Sud raffreddato, senza mare, senza famiglia, senza più tradizioni. È la sua forza impetuosa e animale virata al negativo, affamata, ingabbiata in quei palazzi in serie senza mondo intorno”.

Venuto al mondo da genitori molto giovani che si separano quasi subito, una madre forte e fragile allo stesso tempo, un padre che è un’eterna promessa non mantenuta, Jonathan trascorre la sua infanzia con i nonni, napoletani da parte di madre, metà siciliani e metà milanesi da parte di padre. Due mondi opposti che non dialogano, tra i quali il bambino rimbalza come una pallina in un flipper e da cui emerge il suo attaccamento alle figure femminili. Insicuro, introverso, balbuziente, a scuola è il migliore, ha sei anni quando capisce di non essere interessato alle donne: è il bersaglio perfetto per ogni bullo che si rispetti. Leggendo la storia della sua infanzia e della sua adolescenza si avverte continuamente il presagio di un destino segnato, quello di un essere umano schiacciato dalla vita e mai più recuperato. Invece, il ragazzo cresce e si fortifica e diventa lo scrittore che oggi si racconta in questo romanzo autobiografico che sfida il pregiudizio con il potere della parola.

Una parola che prende la forma del contenuto, un ritmo sincopato, frammentato, convulso, febbricitante come il suo autore che vive nell’io narrante al tempo presente. I periodi sono molto brevi, brevissimi a volte, tre o quattro parole poi punto e a capo. Nelle pagine dedicate al suo presente incerto, prima in attesa della diagnosi poi nella ricerca paranoica di un’altra malattia invisibile che è solo proiezione dell’angoscia, Bazzi costruisce uno stile in grado di riflettere lo stato d’animo, l’ansia, il dubbio, domande senza risposta.

Nei capitoli di Febbre in cui l’autore racconta il suo passato, lo stile si fa più fluido ma senza perdere ritmo. È in queste pagine su Rozzano infarcite di cultura pop, più che nella narrazione della malattia, che l’autore dà il meglio di sé. Il racconto della sua periferia è immediatamente riconoscibile, chiunque può vederci tratti della propria (le periferie sono tutte uguali, o almeno lo erano), la galleria dei suoi personaggi è quasi pasoliniana: ci sono Carmelo e Rosy, marito e moglie, lei fa la prostituta e lui il suo protettore, c’è Asia, la prostituta senza denti, poi c’è Tommy che è rimasto senza una mano per un gran botto di capodanno, ci sono figli abusati, figli di tossicodipendenti, madri prostitute e padri che entrano e escono di galera. E in mezzo al dramma e al disagio sociale i programmi di Patrizia Rossetti, Non è la Rai, Colpo grosso, le telenovelas con Grecia Colmenares su Rete 4, i Power Rangers, Ok il prezzo è giusto, A mille ce n’è nel mio cuore di fiabe da narrar… Un universo familiare a tutti quelli venuti al mondo negli anni 80. E come molti di loro anche Jonathan ha difficoltà a capire cosa farà da grande: cambia scuole, cambia idee, esplora passioni, studia filosofia, insegna Yoga, una generazione nata nell’incertezza a cavallo tra il mondo che era e quello che sarà.

Alla fine è arrivato qui Jonathan Bazzi, in finale al Premio Strega con il suo romanzo d’esordio che è il racconto della sua storia ma che per la materia trattata acquista una connotazione politica, quasi di militanza, un atto di consapevolezza e di lucidità contro il pregiudizio, lo stigma sociale, i “se l’è cercata”. Guardare il problema dritto negli occhi, indagarlo e poi appropriarsene per mezzo della parola, così si combattono i tabù.

E allora non resta che aspettare stasera, 2 luglio alle 23,05, la diretta su Rai3 della finale del Premio Strega, per scoprire chi vincerà. Qui sotto l’elenco dei finalisti:

  • Sandro Veronesi, Il colibrì (La nave di Teseo) con 210 voti
  • Gianrico Carofiglio, La misura del tempo (Einaudi) con 199 voti
  • Valeria Parrella, Almarina (Einaudi) con 199 voti
  • Gian Arturo Ferrari, Ragazzo italiano (Feltrinelli) con 181 voti
  • Daniele Mencarelli, Tutto chiede salvezza (Mondadori) con 168 voti
  • Jonathan Bazzi, Febbre (Fandango Libri) con 137 voti

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